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Gli ingredienti della rigenerazione urbana

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L’economia circolare, la sostenibilità e la trasformazione dei modelli di business sono fenomeni che toccano il mondo dell’impresa. Ma anche la città e le sue aree hanno una trasformazione data da una seconda vita “dopo l’uso”.

E quando un utilizzo specifico perde la sua motivazione, anche un luogo può rinascere attraverso la spinta pubblica, la visione del privato e l’ingrediente del verde.

Senza abbandonare l’idea che anche la riqualificazione urbana vive di capitali e impresa, abbiamo raccolto le idee di Luca Bigliardi, esperto del settore, Ceo e fondatore dello studio di architettura Principioattivo.

 

 


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Il concetto di rigenerazione urbana quando è nato? In che cosa consiste?

Negli ultimi 20 anni circa le città hanno cominciato a riprogettare i cosiddetti Vuoti Urbani nell’ottica dei cambiamenti sociali ed economici che stanno stravolgendo i concetti di mobilità, socialità e modalità di vivere la giornata e conseguentemente spazi e città stessa.

Per rigenerazione urbana si intendono quindi quelle azioni atte al cambiamento della città, sia essa la trasformazione di un vuoto urbano dismesso o la riqualificazione di edifici dismessi anche con cambio di destinazioni e di obiettivi di uso.

 

 

Recupero, riqualificazione, economia circolare, sostenibilità. Che grado di parentela c’è tra la questi concetti e quello di rigenerazione urbana?

Partendo dall’ultimo termine, sostenibilità, tutti i concetti presentati risultano collegati sia tra loro che al concetto di rigenerazione urbana.

Rigenerare un luogo o una parte di città prevede innanzi tutto un recupero o una riqualificazione di spazi ed edifici perseguendo un obiettivo di lunga durata ma al tempo stesso in modo consapevolmente adattabile.

Il progetto di rigenerazione e cambiamento deve prevedere un ritorno dell’investimento e una sostenibilità sia in termini economici – si parla a questo punto di economia circolare nel senso che gli investimenti nei cambiamenti urbani ritornano in termini di consumi e di migliore qualità della vita dei cittadini – ma anche in termini sociali e culturali

 

 

C’è un denominatore comune utile tra questi? Qualcosa che li tenga insieme e aiuti a dare una lettura più semplice e complessiva?

Quando si parla di città e rigenerazione urbana il denominatore comune è sempre uno: il cittadino. Quando un progetto riesce a creare collettività, a risolvere i problemi di molti e a creare socialità tra i cittadini, allora diventa un progetto di successo e la rigenerazione urbana ha raggiunto il suo obiettivo intrinseco.

 

 

In questo percorso, che ruolo ha il verde? È un ingrediente segreto, un’attrazione, un espediente per vivere in città senza pagarne gli effetti negativi?  

Il verde dovrebbe essere una costante, permanente presenza. Chiedere se il verde e la natura sono importanti all’interno della vita di ogni uomo è come chiedere se vivere in bianco e nero crei lo stesso stato psico emozionale di vivere a colori! Si può vivere senza, ma cambia sostanzialmente e radicalmente vivere “con” e “nel” verde.

Diventa un espediente comunicativo nel momento in cui il verde non viene creato per la collettività ma per il bene di pochi, quando è solo un maquillage estetico e non un obiettivo di programma. Il verde è l’ingrediente, non un ingrediente segreto, ma la costante per città sempre più a misura di uomo.

 

 

Qual è invece il ruolo del privato? Come si inserisce nella rigenerazione? Lo si responsabilizza, gli si danno dei compiti, gli si fanno costruire “pezzi” comuni di città?

Il privato dovrebbe essere l’attore. Il comune e le istituzioni dovrebbero essere i garanti e i progettisti della visione di insieme ma è il privato che dovrebbe essere l’attore principale:

  • è il privato che ha la visione concreta del mercato,
  • che ha il polso della situazione economica in prima linea,
  • e che al tempo stesso ha la capacità di portare o disporre di capitali e conseguentemente la necessità di trarne adeguati ritorni economici.

Sotto la supervisione e la programmazione degli attori pubblici (Distretti, quartieri, comuni, regioni, etc..) il privato può costruire e modificare pezzi di città non solo per un proprio individuale ritorno economico ma per un rendimento sociale della città stessa.

La gestione di un parco pubblico ad esempio può dare la possibilità al privato di investire in servizi migliori e superiori ai minimi garantiti dal comune, portando in cambio visibilità e comunicazione del proprio brand con una situazione win-win per le istituzioni, il mondo privato e i cittadini.

 

 

Come si manifesta la rigenerazione? Sempre per mano pubblica? Per iniziativa di Comuni e PGT? I quartieri o le zone in cui intervenire si scelgono o si manifestano spontaneamente?

Tendenzialmente la rigenerazione dovrebbe nascere per volontà pubblica o per una pubblica manifestazione di attenzione ad una zona o ad un edificio.

Non sempre però le istituzioni riescono a lavorare sul territorio con attenzione puntuale e pertanto va previsto un piano di rigenerazione organizzato e coadiuvato dalle istituzioni stesse, che devono essere elastiche e attive a dialogare con privati e fondazioni, che spesso propongono progetti di rigenerazione in quanto più presenti sul territorio e più coscienti delle necessità e dei bisogno locali.

 

 

Che ruolo ha la storia (anche economica o industriale) nella rigenerazione di una zona?

È una guida. È importante avere ben chiara la storia di un luogo e dei suoi abitanti, degli eventi di rilievo e dei luoghi comunemente riconosciuti per poter progettare nel rispetto di alcune invarianti. Al tempo stesso non è la storia che deve dare le linee guida della rigenerazione anzi, è proprio la storia che ha portato l’edificio o l’area a necessitare di rigenerazione, pertanto la storia diventa un elemento da cui imparare per migliorare ed evolvere.

 

 

Cosa può imparare un’azienda privata, da questi modelli di lavoro? E che ruolo può decidere di avere? 

Le aziende private dovrebbero essere attori proattivi in questo processo. Una città dove i cittadini vivono e lavorano bene, in armonia e in luoghi piacevoli, diventa una città che accoglie e consuma e conseguentemente una città attrattiva per le aziende private.

Pertanto i privati dovrebbero dialogare con comune e cittadini per cogliere occasioni date dalla rigenerazione: nuove aree su cui poter lavorare e far conoscere i propri brand, edifici e aree dismesse con valori di acquisto/affitto basso che possono essere riqualificati e portati a nuova vita.


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Il digitale che arriva in giardino

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Il verde in casa e negli spazi pubblici è una moda in crescita, destinata a durare. Un nuovo food, con grandi spazi di miglioramento nella logistica e nel packaging.

L’eCommerce si augura infatti di portare efficienza anche nel giardinaggio. Un mercato stabile, in cui una pianta su dieci è venduta online, ma tra 10 anni si potrà superare il 50%, stando a una crescita attuale superiore al 20% in molti Paesi.

Ce lo racconta Alberto Jacini, fondatore di Yougardener.

 

 


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Come possiamo definirvi? Una digital company che vende piante?

Direi che può essere una definizione corretta. Volendo essere più precisi, ci definiamo una gardening information company. Il nostro obiettivo è quello di diventare il punto di riferimento per tutti coloro che cercano qualsiasi tipo di informazione su piante e giardinaggio. La vendita tramite il marketplace è sicuramente una parte fondamentale.

Come funziona il vostro modello (esempi)? Chi sono i vostri clienti target?

Il nostro è un marketplace verticale. Ci sono diversi esempi di aziende che, con un modello simile al nostro declinato per le specificità del proprio settore, hanno raggiunto posizioni di mercato molto importanti. Vivino nel vino, Farfetch nell’abbigliamento, Etsy nell’artigianato, Bloomnation nei fiori recisi.

I nostri clienti oggi sono prevalentemente appassionati, persone che conoscono già le piante che cercano e che trovano su Yougardener una scelta che non trovano altrove. Il nostro target però è più ampio e comprende da un lato i professionisti e dall’altro ai giardinieri occasionali, segmenti che hanno bisogno di un’offerta specifica che stiamo mettendo a punto.

 

 

Intermediate i prodotti altrui oppure la piattaforma consente ai coltivatori di vendere direttamente ai clienti?

Yougardener gestisce l’integrazione dei cataloghi e del carrello, il pagamento e il customer care. La spedizione viene invece effettuata dai vivai partner.

 

 

Rispetto a modelli noti – come ad esempio – Viridea – voi cosa avete in più o in meno?

Noi siamo completamente digital mentre Viridea è quasi interamente fisica. Due esperienze di acquisto molto diverse ognuna con i suoi vantaggi. I nostri vantaggi sono l’accesso immediato a un mondo di informazioni utili, una varietà di catalogo molto maggiore e la consegna a domicilio. Quello che non abbiamo è il contatto fisico con il prodotto.

Perché avete scelto questo mercato? Com’è l’andamento del settore e quali evoluzioni sta avendo?

Lo abbiamo scelto per passione, soprattutto del mio socio Pietro che è botanico e grande amante delle piante. All’inizio doveva essere un side project che unisse le sue competenze di botanico e le mie di sviluppatore. Poi ci siamo resi conto che l’e-commerce delle piante non era ancora decollato e che era il momento giusto e abbiamo visto l’opportunità di business e quindi la possibilità di dedicarcisi a tempo pieno.

Il giardinaggio è oggi un mercato stabile anche se con nuove energie, mentre la vendita online di piante sta esplodendo con tassi di crescita superiori al 20% in molti Paesi.

 

 

Il “verde” privato (in casa), oltre a quello pubblico dei Comuni, sta diventando una moda? E quello sponsorizzato dalle aziende?

Sicuramente il “verde” è di moda, sia in casa che negli spazi pubblici. Se ne parla sempre di più e credo che sia una moda destinata a durare. Noi diciamo che è il nuovo “food”.

 

 

Dal punto di vista logistico, come riuscite a spedire una pianta a chilometri di distanza?

Prevalentemente con i corrieri ordinari. Le piante resistono molto bene a un viaggio di 2 o 3 giorni. Ovviamente bisogna usare le debite precauzioni. Proprio su questo vogliamo lavorare. Vogliamo diventare una base di know-how per tutti i nostri partner su come migliorare la logistica e il packaging delle piante e come far diventare la spedizione sempre più sostenibile.

 

 

Secondo voi è probabile una convergenza dei canali distributivi?

Difficile dire. Siamo solo convinti che tra 10 anni più di una pianta su 2 verrà venduta online. Oggi siamo a meno di una su 10.

Prevedete qualche partnership nel prossimo futuro? Su quali fronti?

Si, molte. Siamo sempre alla ricerca di altri partner commerciali nel senso di venditori sul marketplace, ma non è facile trovare quelli con le caratteristiche giuste.

Non abbiamo interesse ad avere il più alto numero possibile di venditori sul marketplace ma ci interessa soprattutto di avere dei fornitori affidabili e con dei buoni prodotti che coprano determinati segmenti di catalogo.

Stiamo pensando anche a partnership per la comunicazione, anche se da questo punto di vista stiamo ancora cercando la giusta direzione.

 

 

Pensate di aprire il mercato anche con campagne marketing precise oppure corsi /eventi?

Siamo ancora in una fase in cui tendiamo a concentrare tutte le risorse nella costruzione del prodotto. Le campagne di marketing verranno presto ma non so dire ancora in che forma. Corsi e eventi sono sicuramente buoni candidati.


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Eventi internazionali a management italiano

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Mondiali di calcio, Olimpiadi, ma anche EXPO2015. I grandi eventi internazionali sono diventati motori incredibili per la visibilità delle città, un forte stimolo per lo sviluppo infrastrutturale di interi Paesi, e un serbatoio di grandi managerialità.

Sono un’occasione per provare un rilancio o per affermare un indiscusso potere di immagine. Come nel caso di Milano, diventata un marchio di fattività e buona riuscita nei progetti in cui si applica.

Abbiamo raccolto molti spunti sul tema dal Ceo di Filmmaster Events, Andrea Varnier, con quasi 30 anni di esperienza nella gestione degli eventi internazionali, e una delle figure italiane più conosciute del panorama olimpico internazionale.

 

 


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Gli eventi internazionali sono visti dal pubblico come uno spettacolo. Ma sono anche un vero e proprio mercato. Quanto è grande il settore in Italia, e nel mondo?

I grandi eventi internazionali, quali ad esempio le cerimonie degli eventi sportivi globali, hanno un mercato molto specifico e differenziato. Ovviamente si differenziano per i numeri, ma soprattutto nei processi: si tratta di gare complesse con processi decisionali che possono variare moltissimo da paese a paese.

I progetti si sviluppano quasi sempre con tempi piuttosto lunghi, un arco di tempo anche di anni, per Rio ad esempio ce ne sono voluti ben cinque.

Questi grandi eventi possono incidere in modo molto grande sul fatturato di realtà come la nostra, ma il loro sviluppo pluriennale e l’estemporaneità rendono difficile determinare una percentuale di incidenza.

 

 

L’ultimo grande evento che ricordiamo in Italia è “solo” Expo2015. Mentre ci sono Paesi in cui oggi si susseguono eventi internazionali. Quali sono i Paesi più attivi in questo?

Certamente si può fare di più, ma l’Italia ha ospitato vari “grandi eventi” negli ultimi anni come, solo per citarne alcuni, le Olimpiadi Invernali a Torino nel 2006, i Giochi del Mediterraneo, i Mondiali di Nuoto fino ad arrivare all’Expo del 2015.

Nell’ultimo anno è arrivata la tappa romana della Formula E (per altro organizzata da Filmmaster Events) che è stata un grande successo.

Non dimentichiamo inoltre che proprio a Roma si svolgerà la partita inaugurale del Campionato Europeo di calcio del 2020 e che l’Italia sarà candidata ad ospitare i Giochi Invernali del 2026.

Nel resto del mondo succedono tante cose in ogni continente, ma focalizzandoci su aree in cui siamo coinvolti attivamente, possiamo dire che la regione del Middle East è tra le più floride in questo momento, non solo per l’avvento dell’Expo di Dubai 2020, ma anche per i Mondiali di Calcio in Qatar del 2022.

 

 

Da cosa deriva la scelta di un Paese nell’ospitare o candidarsi ad ospitare un grande evento internazionale?

Sono diverse le motivazioni che spingono un Paese ad ospitare un grande evento internazionale. Prima di tutto, ovviamente l’immagine  e la promozione del Paese stesso, di un territorio, di una città.

Poi le ragioni di natura economica: occupazione, rilancio, sviluppo delle infrastrutture. Può diventare una grande opportunità se gestita nella maniera corretta.

 

 

Cosa lasciano al paese ospitante, esulando dai fattori economici? 

Orgoglio e appartenenza, una cultura del fare nuova, un’eredità forte. E poi un mestiere per chi lavora ai grandi eventi che viene esportato in tutto il mondo. Si chiama LEGACY, è l’incredibile patrimonio culturale, sociale e umano che viene lasciato alla nazione ospitante.

 

 

Cos’ha da dare l’Italia su questo fronte? Ha managerialità specifiche o distintive?

L’Italia ha un “made in italy” che non ti aspetti, sui grandi eventi siamo tra i più preparati a livello di produzione e managerialità. Sono tanti gli italiani di grandissima qualità in giro per il mondo che ruotano intorno a questo business. Come Filmmaster Events, siamo sulla scena internazionale da quasi quarant’anni, durante i quali abbiamo aiutato a fare emergere molte di queste eccellenze professionali.

 

 

Di solito sono eventi che durano pochi mesi. Quanto è invece il tempo complessivo impiegato per organizzarli?

Ogni evento è differente, poi c’è un tempo per l’organizzazione generale e un tempo per la parte che ci riguarda, ad esempio le Cerimonie o il Viaggio della Fiamma Olimpica (nel caso di Rio 2016).

Una grande Cerimonia necessita mediamente di un paio d’anni di lavoro, tra sviluppo della creatività e produzione. Si va in realtà dai pochi mesi agli anni, è estremamente ampia la differenza temporale tra le diverse tipologia di eventi.

 

 

Un evento come le Olimpiadi quanti tipi di manager impiega? Quali tipologie di manager servono per organizzare una macchina come quella delle grandi cerimonie? 

Di nuovo, concentriamoci solo sulla parte che ci riguarda direttamente, ad esempio le Cerimonie di Apertura e Chiusura Olimpiche e Paralimpiche, che nel caso di Rio 2016 sono state gestite da Filmmaster Events.

L’organico per gli eventi di questa portata è come una fisarmonica, si parte da un gruppo estremamente ristretto di persone, che poi diventano 10, che successivamente diventano centinai che a loro volta si avvalgono di 1000, 10.000 professionisti e volontari.

A Rio ad esempio, lo staff di produzione è arrivato a toccare le 700 persone, di 18 nazionalità diverse. A queste si aggiungono quasi 8.000 persone tra cast di professionisti e volontari.

Non dimentichiamo poi lo staff dei fornitori, insomma numeri davvero importanti. Si tratta di una sfida manageriale di straordinaria complessità: occorrono visione, motivazione, capacità progettuali al top e un’energia fuori dal comune per tenere costantemente alta la tensione al risultato e l’ingaggio di ogni persona in una macchina organizzativa dove il contributo di ciascuno – dal CEO alla “semplice” comparsa – è davvero determinante per il successo.

 

 

Le fiere o gli eventi di business hanno spesso hanno successo quando riescono ad allargare la platea aprendosi ad un pubblico non di addetti ai lavori, ma popolare, che li vive fuori dagli stand per professionisti. Come mai c’è questa tendenza?

Perché l’evento inteso come inizio, durata e fine non esiste più, siamo in un momento storico in cui il prima il durante e il dopo vivono di quello che si chiama LIVE ENTERTAINMENT. Digital, social, engagement, fa tutto parte della stessa macchina, in cui l’obiettivo è scardinare i muri di target specifici e conquistare “il mondo fuori”.

 

 

Milano negli ultimi cinque anni sta diventando la città italiana degli eventi. Di ogni tipo. Come se lo spiega? Quali altre città del mondo si può paragonare sotto questo profilo? E quali sono i fattori per evitare che diventi un “eventificio”, ovvero solo una buona location?

Milano con Expo si è preparata per tempo ed è diventata un teatro a cielo aperto, e non solo. È un trend, senza dubbio, ma se l’onda prosegue è perché gli ingranaggi hanno funzionato bene da subito. È una città accogliente da questo punto di vista, scegliendola, si ha una “garanzia” di una buona riuscita.


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Design e grafica nuovi mediatori di contenuti e informazioni

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Design e grafica sono diventati importanti per le società di consulenza – Capgemini e Accenture hanno acquisito gli studi di design Adaptive Lab e designaffairs – ma anche per i media.

Infatti abbondanza, tempo e complessità li spingono a mediare le informazioni per il lettore, mettendo nel mirino la sua attenzione e la leggibilità dei contenuti.

Le aziende, con i loro fiumi di dati, alimentano il florido mercato di grafiche, infografiche e report visivi, e i media – tra data journalism e fact checking – chiedono sempre più la presenza di un designer a fianco del giornalista. E in Italia, dove il tutto è confinato nell’adv online? Abbiamo raccolto molte idee sul tema da Paolo Guadagni, Ceo e fondatore di The Visual Agency.

 


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Quali sono i fattori per cui la richiesta di informazione in forma grafica sta crescendo così tanto?

Ci sono, a mio avviso, 3 fattori principali:

1) la crescente complessità delle informazioni che devono essere veicolate ai target di riferimento. I prodotti e servizi sono sempre più sofisticati. I dati raccolti aumentano in modo esponenziale, le aziende devono comunicare informazioni sempre più complesse sulla propria attività (ad esempio la recente introduzione dell’obbligatorietà della Documentazione Non Finanziaria nei bilanci).

2) La mancanza di tempo. E’ indubbio che le persone per motivi vari hanno sempre meno tempo in ufficio e nella loro vita privata per assimilare la complessità di cui sopra.

3) L’abbondanza di canali di informazione che aumenta la distrazione e richiede formati che attirino l’attenzione.

 

 

Prendiamo ad esempio le infografiche. Quali funzioni hanno: integrano l’informazione scritta, rispondono a una domanda di semplificazione, o catturano l’attenzione del lettore sui social per portarlo alla lettura di un articolo?

L’infografica è un termine molto generico e sinceramente abusato. Un’immagine con una scritta sopra è un’infografica? A mio avviso no.

Per costruire correttamente un’infografica occorre pensare a una struttura, a un ordine di lettura, alle informazioni da mettere in evidenza. Poi si passa alla parte grafica e iconografica.

Diciamo che, se costruita correttamente, l’infografica raggiunge lo scopo di chiarire un determinato argomento o notizia per renderla comprensibile a colpo d’occhio.

Può essere sostituivo di un articolo o in generale di un testo scritto. Recentemente per esempio abbiamo lavorato a un progetto di rendere in infografica le procedure di qualità di una grande azienda italiana, per farle capire meglio ai dipendenti.

 

 

I giornali cambiano versione estetica scegliendo forme più leggere e più distanza tra gli articoli. Il concetto sottostante è “less is more”, per dare al lettore meno cose e facilitare il lavoro dell’occhio?

I giornali cartacei hanno di fronte a loro una sfida praticamente impossibile. La foliazione aumenta in proporzione inversa al numero di lettori.

Nessuno è più in grado, anche per i motivi esposti sopra, di leggere tutto il contenuto in un giornale o anche solo le pagine di maggior interesse. L’utilizzo della grafica, per es. il recente restyling di Repubblica, aiuta molto a rendere più fruibile l’informazione.

Le grafiche sono ancora molto poco utilizzate per una serie di motivi che nulla hanno a che fare con la leggibilità o l’attenzione al lettore. Sono tuttora vissuti e recepiti come ancillari al testo scritto.

 

 

Per i siti di informazione che partono dal web accade meno, ma tutti i giornali cartacei (italiani) replicano nel proprio sito web l’organizzazione e la struttura grafica della versione di carta. Perché commettono questo errore, che porta sul web i problemi della carta, e limita le opportunità che proprio il web offre?

Purtroppo l’editoria italiana non prende esempio dall’editoria web anglosassone. Il New York Times, Los Angeles Time, Washington Post, National Geographics stanno sperimentando con successo nuove forme per raccontare le storie compenetrando la parte di visualizzazione dati (sempre interattiva e originale) con il testo scritto.

Nelle redazioni i giornalisti lavorano fianco a fianco con i designer e i programmatori per rendere veramente multimediale la fruizione.

In Italia ahimè l’attenzione è invece tutta riposta nell’adv online con l’illusione che questo meccanismo ripaghi. Niente tecnologia e bassissima attenzione alla qualità del contenuto. Direzione esattamente opposta a quella americana.

 

 

Che ruolo ha oggi il desing nel settore media? In quali parti della filiera dei media ha un ruolo crescente?

Sicuramente il design ha una parte significativa nella comunicazione web, dove soprattutto la parte di data visualization può esprimersi al meglio.

Tutto il tema del Data Journalism di cui si fa un gran parlare e del fact checking richiede la capacità di presentare numeri e concetti in modo chiaro, semplice, efficace e interattivo. Un mestiere che vede il giornalista “tradizionale” affiancato a un designer.

 

 

Ci sono alcuni formati e segni che nascono proprio per il settore media, oppure altri nati per settori diversi che poi vengono trasferiti anche in quello media? C’è un travaso in questo senso?

La visualizzazione dei dati ha origine antiche. I grafici più comuni (bar chart, grafici a torte, grafici a linee) nascono in Inghilterra nel XVII secolo per riuscire a rappresentare le grandezze economiche. Una necessità per un impero commerciale come quello inglese che aveva bisogno di trattare una grande quantità (per quei tempi) di informazioni numeriche.

Da allora la disciplina della visualizzazione dei dati ha aggiunto nuove tecniche e nuove forme sempre più complesse (tipicamente quelle che troviamo per es. in Microsoft Excel).

Alcuni settori hanno sviluppato forme grafiche proprie. Per esempio la finanza fa uso di grafici costruiti sulla base delle proprie esigenze come i candlestick che servono per visualizzare dati di borsa.

La business intelligence ha aggiunto forme proprie. Poi ancora l’analisi delle reti ha dato origine tutta un disciplina per la visualizzazione dei grafici a rete. Per non parlare della cartografia. Quindi è una disciplina in continuo movimento e aggiornamento e un riflesso di questo si vede anche ovviamente sui media.

 

 

A quali nuove competenze e profili professionali porta questa nuova domanda di visualizzazione?

Faccio un esempio della nostra realtà. All’interno della nostra azienda lavorano una decina di Information Designer. Sono persone con uno skill particolare e in grado, dato un set di dati o un concetto complesso, di trovare la forma di visualizzazione più appropriata.

Tra l’altro siamo fortunati perché a Milano, nella facoltà di Design del Politecnico di Milano, è stato costituito il Density Design, un centro di ricerca specializzato nella visualizzazione di dati. Le nostre persone provengono tutte da lì. Sono figure professionali molto richieste sul mercato. A questo si affiancano front-end developer che traducono in “codice” le visualizzazioni proposte dai designer, con un lavoro in team.

 

 

Quali sono le informazioni per cui è più richiesto un nuovo modello di visualizzazione (informazioni, articoli, dati, bilanci)?

Le aziende sono produttori di numeri. Li raccolgono, li utilizzano al loro interno e in parte li comunicano (alcuni più attrezzati li vendono pure).

Il marketing è sempre più una disciplina che raccoglie e gestisce numeri, così come la comunicazione, la produzione per non parlare della parte amministrativa e di controllo. L’esigenza di trovare modi nuovi di visualizzare questi dati è molto sentita.

Area in fortissima crescita per noi sono il supporto decisionale al top management, la visualizzazione dei dati di ricerche di mercato, la reportistica finanziari. In particolare nei bilanci c’è sempre più la necessità di spiegare concetti complessi come l’impatto ambientale, la responsabilità sociale, i modelli di business, il capitale umano ecc..

 

 

Che tipo di flussi hanno questi nuovi formati: nascono sul web e poi finiscono anche sulla carta?

In realtà nascono più sulla carta per poi trasferirsi nel web. La parte di progettazione e design parte sempre da un foglio e una matita. Su web poi si trova lo strumento, la libreria, o si scrive il pezzo di codice necessario per animare e rendere interattivo il formato.

 

 

Come cambia la filiera, e il processo di creazione, distribuzione ed archiviazione di questi nuovi formati?

La filiera dipende fortemente dal tipo di progetto, dall’esigenza dell’azienda o del media. In generale i media tendono (o dovrebbero tendere) ad avere tutta la filiera interna alla loro struttura.

I tempi su cui si muovono i media sono ridottissimi. Un giorno è già tanto. E per 365 giorni all’anno. Le aziende, pur con ritmi sempre serrati, possono usare delle strutture esterne che li aiutano nel trovare la soluzione ad hoc.

Poi una volta trovata e creata, soprattutto nel caso del web o della intranet aziendale, la gestione passa necessariamente all’azienda per l’aggiornamento e la distribuzione dei dati.


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Digital company che vendono pizza – il modello Domino’s

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Del modello Domino’s Pizza ci incuriosiva la stranezza americana di venire a vendere pizza in Italia.

Poi, nelle risposte che ci ha dato Alessandro Lazzaroni, che ne guida lo sviluppo italiano, abbiamo trovato stimoli altrettanto interessanti.

Partendo dal digitale, arrivano all’adattabilità di un format che punta su fornitori locali e sorprendentemente ha incontrato consumatori aperti e disponibili a fare esperienze nuove, in settori tradizionalissimi.

 

 


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Come spiega l’esplosione del settore del food delivery?

Siamo in un epoca basata sul buon utilizzo del tempo e sulla necessità di fare esperienze. Fino agli anni 2000, il possesso di un oggetto costituiva l’aspirazionalità, in questo momento storico segnato da una rivoluzione effettuata dai millenials, vediamo invece che l’esperienza è al centro.

L’esperienza arricchisce se stessi e consente anche di avere un contenuto da condividere. Per fare esperienze il tempo è quindi la variabile necessaria, il tempo libero a maggior ragione deve essere di qualità e speso al meglio. Ecco perchè anche cucinare è diventato un hobby e non più una necessità.

Quando non c’è la voglia di passare del tempo ai fornelli, non c’è più il senso del dovere che spinge tutti noi a farlo, ed ecco che arriva il bisogno di risparmiare tempo e di arricchire il momento del pasto tramite un’esperienza, che è appunto il food delivery.

Ordinare cibo a domicilio è un’esperienza sempre diversa legata a cucine e piatti sempre diversi, metodologie d’ordine sempre più ingaggianti e veloci. La crescita del business del food delivery è direttamente proporzionale alla necessità dei consumatori di avere delle esperienze di consumo a domicilio.

 

 

Quanto conta la logistica per il settore? Come sta cambiando?

Noi di Domino’s Pizza abbiamo una doppia logistica:

  • quella legata alla consegna dei prodotti freschi ai punti vendita,
  • la consegna dell’ordine al consumatore (ultimo miglio).

Se ci concentriamo sulla logistica dell’ultimo miglio possiamo dire che per noi è fondamentale, tuttavia consegnare un prodotto caldo, buono, in meno di 30 minuti anche se molto importante, per noi non è l’unico aspetto, ma solo uno dei 3 pilastri che costituisce il nostro business.

Domino’s per i consumatori non è solo consegna, ma anche prodotto e un’esperienza imperniata sulla tecnologia (presa dell’ordine online, monitoring dell’ordine, etc.).

Per il settore del food delivery, al contrario nostro, la logistica è esclusivamente legata all’ultimo miglio, ovvero il trasporto vero e proprio del prodotto attraverso dei raider, dal ristorante al cliente. Per questi player quindi, la parte di logistica non solo è importante, ma è praticamente il cuore del business.

 

 

E la tecnologia? In quali parti della vostra catena influisce e come?

La tecnologia è la base della nostra marca. Il Times ha definito Domino’s “a digital company selling pizza“, infatti tecnologia e digital sono presenti a partire dal punto vendita e dalla gestione dello stesso:

  • scorte,
  • inserimento dell’ordine,
  • flusso e gestione delle comande,
  • assegnazione dei driver per la consegna degli ordini,
  • etc…

Anche lato customer experience offriamo diverse soluzioni tecnologiche per la presa dell’ordine, il monitoring della preparazione dell’ordine e della consegna, i pagamenti.

Ovviamente anche in termini di azioni marketing siamo fortemente digitalizzati e oltre il 60% del budget viene destinato all’investimento su touchpoint digitali. Tutta questa struttura ci porta a sviluppare oltre il 65% delle vendite attraverso mezzi digitali.

 

 

Il food delivery è cominciato con la pizza, quando ancora non c’erano app e smartphone. In che modo ha anticipato le accelerazioni date dalle tecnologie? E cosa è restato di quel modello?

La pizza si è sempre abbinata bene al food delivery come prodotto, la tecnologia e la specializzazione nel servizio hanno poi reso il modello completo. Noi, in Domino’s ci consideriamo molto lontani dal modello iniziale, poichè su ogni aspetto abbiamo cercato di costruire ricchezza.

Il nostro prodotto è una pizza pensata per arrivare perfetta a casa del consumatore, quindi, per esempio, abbiamo sviluppato con il nostro fornitore di mozzarella Granarolo, una mozzarella che non sia solo fatta al 100% di latte italiano, ma che abbia anche poco siero in modo che durante il trasporto questo non bagni l’impasto e possa mantenere la pizza asciutta e croccante.

 

 

Qual è il modello di business di Domino’s pizza? Quali sono i suoi numeri?

Il modello di business di Domino’s è offrire una pizza buona, calda e fresca, in meno di 30 minuti, direttamente sulla porta di casa.

Ogni mercato poi adatta prodotti e servizi per rendere questa esperienza fortemente differenziante rispetto alla competition e alle esigenze dei consumatori. Questo tipo di adattabilità ha permesso al marchio di arrivare ad essere la prima catena di pizzerie al mondo con oltre 15.000 punti vendita in oltre 85 paesi.

Il fatturato di Domino’s nel mondo è stato di 11 miliardi di dollari nel 2017 e il 52% di questo fatturato è costituito dai mercati internazionali.

 

 

Com’è presente Domino’s pizza in Italia? Chi ha preso in affitto la licenza in Italia?

Il marchio Domino’s Pizza è concesso tramite un contratto di master franchising a EPizza S.p.a., un’azienda interamente italiana che opera sul territorio dal 2015 e che in meno di tre anni è arrivata ad aprire 13 punti vendita e conta oltre 250 collaboratori.

 

 

Perché Domino’s Pizza è arrivata così “tardi” in Italia? Quando l’hanno intervistata per capire come e quando aprire in Italia, cosa le hanno chiesto? Quali sono state le ragioni che hanno definitivamente convinto gli americani ad aprire qui?

L’Italia è la patria della pizza e ovviamente per un marchio americano si prospettavano notevoli criticità, cosa che in realtà poi non si è verificata, poichè i consumatori italiani si sono dimostrati da subito molto aperti e interessati ad un marchio che portava novità e innovazione anche in un ambito così tradizionale come quello della pizza.

Per capire se il mercato era pronto a questo tipo di business si sono indagati i metodi di consumo di pizza e i possibili gap presenti nel mercato e come il modello di Domino’s avrebbe potuto colmarli.

Per entrare nel mercato italiano abbiamo adattato la nostra offerta alle esigenze dei consumatori spiegando attraverso la nostra piattaforma di comunicazione: “Cuore Italiano, American way”. Questo claim spiega la nostra capacità di avere un’anima italiana, costituita dal prodotto, dalla preparazione artigianale, dalla capacità di prenderci cura del cliente, ma anche l’anima internazionale che è costituita dalla velocità di servizio, la digitalizzazione e le proposte di ricette originali e inconsuete di pizza.

 

 

Tutte le pizzerie sono vostre o alcune sono gestite da altri? In base a quali elementi decidete il mix tra pizzerie di proprietà e franchising?

Al momento tutte le pizzerie sono di proprietà, ma già da quest’anno sono previste le prime aperture in franchising.

 

 

Quanto conta la velocità nella vostra attività (ordine, pagamento, consegna)?

La velocità è sicuramente un elemento, ma costituisce solo un pezzo della ricetta che porta al successo. E’ la pluralità di elementi: prodotto, servizio ed esperienza che contribuiscono a creare nella mente del consumatore una reale affezione alla marca e quindi anche l’affermazione della stessa.


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Perchè sono importanti i dati (degli altri)

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L’interesse sui dati da parte delle aziende cresce, e si concentra in particolare sui dati propri, quelli con cui analizzare le proprie performance economiche, quelle di dipendenti, prodotti e servizi.

Eppure ci sono dati utilissimi a evitare pericoli e limitare i rischi. Sono quelli degli altri; quelli che fornitori, clienti e partner decidono di inviarci, o decidono di dichiarare. E non sono sempre quelli veri.

Abbiamo chiesto a Luisa Quarta – marketing director di Bureau van Dijk Italia (Moody’s Analytics Company) di spiegarci quali sono, dove si trovano, e come si raccolgono.

 


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Quanta consapevolezza hanno dell’importanza dei dati le aziende italiane?

Il contesto in continua evoluzione ed i confini che ormai sono sempre più internazionali hanno portato le aziende ad acquisire sempre più consapevolezza dell’importanza dei dati. Fino a qualche anno fa l’attenzione era tutta concentrata sui dati interni relativi ai propri clienti, come i dati economico finanziari, le esperienze di pagamento e tutto ciò che concerneva la relazione con i clienti.

Oggi questi dati rimangono cruciali ma le aziende necessitano sempre più di approfondimenti e aggiornamenti costanti. Anche le normative hanno contribuito a mettere in primo piano la gestione dei dati; pensiamo ad esempio al più recente DGPR che ha obbligato le aziende a grossi investimenti ed in alcuni casi a rivoluzioni organizzative.

E ancora prima la normativa sulla compliance e l’antiriciclaggio che ci impone una conoscenza approfondita della controparte con cui facciamo affari. Non sono più quindi sufficienti dati sulla solidità finanziaria della controparte, ma occorre verificare la sua struttura societaria, il titolare effettivo, il paese in cui ha sede la società,…

 

Quali rischi e pericoli si possono limitare e prevenire attraverso la raccolta e l’analisi dei dati?

I potenziali pericoli che possono danneggiare un business sono infatti innumerevoli; ne esistono di generici e altri quasi specifici per ogni funzione aziendale. Alcuni, pochi, non sono prevedibili né dunque gestibili in anticipo, ma molti altri si.

Dai più tradizionali riguardanti la valutazione della solidità finanziaria che storicamente è stato un tema sensibile per gli uffici crediti e sta diventando sempre più importante per l’ufficio procurement, sia in fase di scouting ma soprattutto nella valutazione dell’attuale portfolio fornitori per garantire la business continuity.

Molto spesso è infatti difficile sapere esattamente con chi si sta concludendo ad esempio un contratto di fornitura. Le informazioni scarseggiano. Ci si domanda: sarà un partner affidabile? E se anche lo fosse, ci sarà qualcosa del suo modo di intendere il lavoro che può contaminare in qualche modo la mia immagine?

Per risolvere questi dubbi esistono strumenti molto sofisticati che mettono a disposizione le informazioni necessarie sulle società nazionali e internazionali con dati finanziari standardizzati e confrontabili oltre ad indicatori semplici ed intuitivi.

Un punto non meno importante poiché si sta rivelando un aspetto delicato e su cui la sensibilità delle aziende sta aumentando a livello esponenziale è quello della gestione del rischio reputazionale. Soprattutto su questo tema l’ampia copertura e la tempestività dell’informazione diventa strategica per superare i limiti dei famosi registri dei titolari effettivi di cui si parla tanto ultimamente.

 

Ad oggi le imprese quali strumenti interni hanno a disposizione per raccoglierli?

Gli strumenti per la raccolta e l’archiviazione dei dati sono ormai entrati nella gestione quotidiana della maggior parte delle aziende, da quelle più strutturate alle tradizionali PMI. Sono poche infatti le società che non si sono poste il problema della raccolta dei dati e che non hanno implementato un sistema di CRM o ERP.

Quello che invece rappresenta sempre più una sfida è l’identificazione della “corretta” informazione, l’aggiornamento della stessa e l’integrazione quindi nei propri sistemi. Sicuramente avere più informazioni possibili è importante ma è ancora più importante saperle gestire ed organizzare per prendere delle decisioni corrette in tempi rapidi.

 

C’è qualche differenza tra le pmi e le aziende grandi?

Indubbiamente le grandi aziende sono strutturate e ogni dipartimento si prende carico dei relativi rischi; inoltre queste aziende hanno assimilato prima le diverse normative in atto e hanno in alcuni casi strutturato interi processi per la raccolta e l’analisi dei dati.

Ci sono comunque delle PMI che stanno seguendo questa stessa strada, ma per la maggior parte il problema rimane la struttura organizzativa e la necessità di potersi avvalere di persone che sappiano leggere intelligentemente i dati.

 

E quali dati raccolgono al momento?

L’urgenza in questo periodo è sicuramente la raccolta dei dati per rispondere alla normativa sulla privacy e a quella antiriciclaggio, ma rimane salda la necessità di avere informazioni economico finanziarie per valutare le proprie controparti.

Queste valutazioni possono sembrare semplici perché pensiamo alla disponibilità dei dati di bilancio che abbiamo in Italia, ma considerando che i confini sono sempre più globali, occorre necessariamente spostare l’attenzione a tutto il mondo.

E qui si pone il grande problema: l’accesso ai bilanci non è semplice ed immediato per tutti i Paesi e l’Italia rappresenta in questo senso un’isola felice poiché il nostro paese è uno dei più virtuosi in cui la pubblicazione delle informazioni economico finanziarie è maggiormente efficiente.

 

Quali sono invece i dati che potrebbero raccogliere e non lo fanno?

Ad esclusione delle società più grandi e strutturate, le tradizionali PMI non hanno ancora interiorizzato temi come quelli della corretta valutazione della controparte.

Il rischio reputazionale infatti non viene ancora considerato per la sua reale importanza ma se pensiamo che banalmente oltre 28.000 aziende italiane hanno un azionista estero ed in alcuni casi in Paesi black list, non possiamo non prendere in considerazione il problema.

Si stima che più del 25% del valore di mercato di una società è indirettamente attribuibile alla sua reputazione quindi non possiamo non analizzare nel dettaglio il nostro fornitore, cliente o dipendente con cui stiamo avviando un rapporto di lavoro.

Inoltre i dati subiscono una variazione costante e da quello che registriamo nei nostri database, in media ogni secondo cambia l’azionariato di almeno due società. Quindi non è solo importante la natura dei dati che si raccolgono ma la tempestività nel loro aggiornamento.

 

Cosa le frena? Cultura, costi, competenze…?

Alcune aziende sono ancora poco attente alla raccolta di questi dati, e non solo quelle di medie dimensioni. Spesso ci troviamo di fronte a referenti che credono di potersi esimere dalla raccolta di tutte queste informazioni solo perché lavorano con realtà italiane o credono di conoscere molto bene i propri clienti come accadeva qualche decennio fa.

 

Una piccola e media azienda che non ha le risorse economiche per assumere un data analyst, che soluzioni può adottare?

L’importante è essere consapevoli dell’importanza dell’analisi dei dati per la gestione dei rischi e scegliere soluzioni con un’interfaccia semplice ed intuitiva. Inoltre, in questi casi diventa di fondamentale importanza trovare soluzioni che prevedano una formazione costante.

 

Qual è la figura interna con cui vi relazionate in materia di dati?

Nelle aziende ormai tutti i dipartimenti pongono molta attenzione ai dati ma la sensibilità maggiore la riscontriamo nei credit e risk manager che da sempre sono sensibili al dettaglio informativo.

Negli ultimi anni anche il procurement manager ed il compliance o legal manager sono sempre più coinvolti nel processo di analisi e valutazione dei dati a seguito anche dell’introduzione della normativa sull’antiriciclaggio.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare l’interlocutore che noi incontriamo meno, o in un momento successivo alla sottoscrizione dell’abbonamento, è invece il dipartimento IT.

 

Le informazioni e i dati raccolti in azienda non sono solo quelli di bilancio, e vediamo che spesso sono utilizzati solo per prendere decisioni. Purtroppo non c’è ancora l’uso a farne contenuti per l’esterno o il middle management. Perché?

Il dato di bilancio è ormai una commodities e soprattutto è un dato pubblico anche se ancora incontriamo qualcuno che ci domanda come siamo venuti a conoscenza dei suoi dati sensibili (riferendosi ai dati di fatturato).

Naturalmente la raccolta i questi dati è agevole ed immediata per le aziende quotate, ma la questione si complica se spostiamo l’attenzione sulle società private che nella realtà rappresentano ben oltre il 90% delle aziende operanti sul mercato. Inoltre, vi è il problema per i diversi criteri di redazione dei bilanci visto che non esiste un modello standard.

La diversificazione emerge in relazione a quali informazioni le aziende depositano presso le rispettive autorità nazionali, come le stesse vengano divulgate o siano accessibili, le motivazioni e le soglie imposte per la divulgazione obbligatoria sulla base di parametri quali numero di dipendenti e fatturato.

E molte di queste differenze sono di origine culturale. Il Regno Unito, il primo paese ad aver iniziato il processo di industrializzazione, ha visto le proprie società depositare bilanci fin dal diciottesimo secolo. La filosofia era che gli investitori sarebbero stati attratti da aziende con utili emergenti e che davano prova di potenziale crescita, il tutto messo nero su bianco in bilanci “accessibili” che avevano lo scopo di fornire un quadro preciso della solidità dell’impresa.

Nel resto d’Europa gli investimenti esterni in società erano rari e la maggior parte delle imprese a conduzione familiare e al contrario dei paesi anglosassoni, le banche e gli stati giocavano (e ancora giocano) un ruolo importante nel finanziamento delle imprese.

Solo con l’introduzione della IV direttiva dell’Unione Europea nel 1974 il deposito dei bilanci è divenuto obbligatorio nella maggior parte degli stati membri. Secondo l’UE lo scopo principale del deposito dei bilanci è quello di fornire a ciascun governo nazionale le informazioni necessarie a fini fiscali e statistici.

Lo scopo dei bilanci presentati dalle aziende private alle diverse autorità regionali può quindi riassumersi come segue: nei paesi anglosassoni il bilancio serve per fornire un quadro veritiero e corretto dell’impresa agli attuali o potenziali azionisti; in altri paesi europei il bilancio viene redatto per fornire alle autorità informazioni a fini fiscali e statistici e offrire tutela ai creditori.

L’approccio culturale da questo punto di vista non è cambiato molto tanto che all’estero moltissime aziende diffondono dati anche sulla propria strategia o sulle politiche di CSR per valorizzare il proprio brand mentre in Italia siamo rimasti più conservativi e per così dire riservati.

 

Quali sono le più recenti innovazioni che stanno toccando il vostro settore?

Non possiamo non considerare l’artificial intelligence che potrebbe supportare le aziende nella lettura ed interpretazione dei dati.

Si parla infatti molto di big data e avere la possibilità di interpretare ancora più facilmente il dato o individuare il dato più pertinente per sviluppare la strategia aziendale diventerà negli anni sempre di crescente importanza.

 

Ci sono start up che stanno sviluppando servizi interessanti?

Nel corso di questi anni abbiamo avuto modo di sottoscrivere oltre 200 partnership a livello mondiale con società di fama internazionale ma anche con delle vere e proprie start up che a nostro avviso, meglio di altre, stavano cogliendo le opportunità che il contesto anche normativo offre.

Ci sono ad esempio società di ricerca e raccolta di informazioni sui rischi legati a questioni ambientali, sociali e di governance (ESG) e alla condotta aziendale. Alcune di queste società sono in grado di analizzare ogni giorno più di 80.000 fonti pubbliche e stakeholder esterni, compresa la stampa locale, internazionale e i media online, le newsletter, le organizzazioni non governative, le agenzie governative, i think tank, i blog e i social media in 16 lingue diverse.

Anche il mondo accademico è molto attivo su questi temei e uno degli spin-off dell’Università Cattolica con cui stiamo lavorando da tempo sui temi dell’infiltrazione criminale è Transcrime, che ha sviluppato dei sistemi di analisi del rischio di infiltrazione criminale.

Normalmente le start up hanno un approccio ai dati differente visto che in alcuni casi fanno del dato il loro core business, ma si focalizzano meno sul dato interno e valorizzano più il dato esterno.


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Come si informano manager e Ceo?

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Come leggono e si informano i manager, gli imprenditori e i vertici aziendali? La domanda è difficile per motivi diversi e nuovi.

Il primo. Oggi i contenuti e le informazioni sono prodotti in misura enorme, quasi esagerata, anche da chi non è professionista. Quindi è difficile capire cosa leggere tra tutto il materiale prodotto, che non è più solo libri, giornali, materiale informativo di tipo tecnico o generalista, eventi, video, talk, e post sui social network.

Il secondo. Oggi i flussi di informazioni e contenuti circolano in ogni momento. Quindi è difficile capire quando leggere e informarsi. E trovare il tempo per farlo.

Il terzo. Se aumentano i produttori di informazioni e contenuti – tutti vogliono scrivere e in pochissimi vogliono leggere – la gerarchia delle fonti è destabilizzata. Quindi diventa difficile capire cosa è prioritario o importante.

Come, quando, cosa, perché informarsi diventa un impegno, un’attività che merita scelte precise. Su cui abbiamo interrogato Guido Carella, Presidente di Manageritalia, che per mestiere ascolta ogni anno le esigenze e le abitudini di migliaia di manager che forse più di tutti hanno bisogno di informarsi.

 


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Ipotizziamo che la gerarchia dell’informazione di un manager sia questa: i libri di saggistica manageriale e quelli tecnici, gli eventi, i giornali, il web, i social network. Oggi i manager si informano più o meno dell’arrivo del digitale, e di quale di queste informazioni usufruiscono in quantità maggiore?

Con l’arrivo del digitale tutto ha subito una trasformazione epocale. L’”affollamento” informativo è un dato di fatto nella società attuale. Il manager si trova al centro di questo vortice e la sua sfida è quella di trovare un equilibrio produttivo tra la selezione dei vari canali di informazione e quello dei contenuti.

Un processo che lo vede nella duplice veste di osservatore e soggetto attivo, ricevente e emittente. In questo contesto ritengo che i manager dedichino oggi meno tempo ai libri di saggistica, salvo cercare di recuperare la lettura e lo studio nel momento in cui il bisogno di “mettere ordine” diventa una necessità per interpretare e dare “senso compiuto” allo scenario nel quale devono fare scelte e definire strategie.

Il mondo digitale ha portato grandi opportunità e facilità di accesso all’informazione e ai temi, ma ha aumentato il rischio di superficialità e generalizzazione dei contenuti: il rischio è di focalizzarsi più sulla piacevolezza della forma che sul contenuto del messaggio, sull’interesse immediato e di breve durata piuttosto che su un’attenta partecipazione, sull’impatto delle impressioni suscitate  più che sulle argomentazioni trattate.

Il manager deve, a mio avviso, essere un attento osservatore dei social senza farsi rapire dall’illusione di una facile elaborazione delle informazioni in esse presenti. Lo smartphone è ormai parte fondamentale della nostra vita, ma la carta resta importante e continua a giocare la sua “partita”.

Un manager deve cercare nei giornali opinioni qualificate con le quali confrontarsi – l’informazione è parte integrante del processo di formazione continua -, deve leggere saggi di cultura generale e, soprattutto, partecipare alle attività “sul campo”. Negli eventi, nel contatto diretto, è infatti possibile trovare la “materia prima” per realizzare quella chiave di lettura di questo affollamento, così indispensabile per chi ha un ruolo, come i manager, di responsabilità non solo economica ma anche sociale.

 

Secondo voi qual è il motivo di questa suddivisione? Perché vengono preferiti alcuni mezzi invece che altri?

Più velocità in un mondo che lascia poco tempo per ogni cosa. Il manager deve adempiere con successo al suo ruolo, deve interpretare il trend, agire con un team di persone di cui ha la responsabilità anche formativa e di esempio.

Quindi, deve osservare, raccogliere, selezionare, elaborare e trasmettere informazioni, ed è responsabile di questo processo. Non credo esista una preferenza precostituita, questa dipende molto da abitudini e scopi.

La suddivisione avviene secondo i profili dei canali, delle fonti e dei contenuti. Sulla base del tema, del progetto da elaborare occorre un  mix calibrato che permetta una visione e una valutazione approfondita e che quindi non ne limiti la capacità di elaborazione.

 

C’è qualche differenza tra l’informazione di cui si alimenta un manager e quella di un Ceo?

Non credo, certamente ogni ruolo manageriale ha un ranking di preferenze “tecniche” secondo le competenze specifiche ma i temi base non cambiano, è diversa solo l’intensità e l’ampiezza di approfondimento.

Peraltro, chi è un manager se non un individuo che ha accettato un ruolo di responsabilità e guida? Essere costantemente connesso col contesto, approfondire i temi, leggere e non solo testi tecnici, vuol dire essere disponibile sempre più verso le nuove necessità.

La lettura aiuta, apre e confronta. Un Ceo poi lo deve fare come prima cosa. A lui è affidata la responsabilità culturale dell’impresa e questo compito richiede costante dedizione e impegno rivolto alla lettura e all’informazione.

 

Oggi il manager o il professionista come gestisce o come dovrebbe gestire l’abbondanza (di libri, di giornali e siti, di eventi, di informazioni sui social), la frequenza, e la quantità di strumenti informativi?

Bella domanda. Non credo ci sia una ricetta per tutti, l’impegno richiesto è alto e la soluzione spesso dettata dallo stile personale e dalla situazione contingente.

Credo che, ove sia possibile, sarebbe molto utile e interessante introdurre questo tema nell’ambito dell’organizzazione aziendale. Magari dando vita a processi/protocolli di team nei quali trovare soluzioni che permettano una sistematicità di approccio e di confronto. Questo potrebbe portare anche degli sviluppi qualitativi e culturali ad una issue che non è solo manageriale.

 

Come si spiega il diminuire della lettura di libri da parte di chi lavora in azienda, compreso chi riveste ruoli di responsabilità?

Il vero problema è la disponibilità di tempo, sia in termini quantitativi che qualitativi. E’ sempre più difficile trovare momenti di tranquillità e di silenzio nei quali ci si può far rapire dalle emozioni e dalle immagini evocative che solo un libro possono regalarci.

Chi riveste ruoli di responsabilità dovrebbe pianificare giornalmente un tempo dedicato alla informazione e lasciare durante la giornata sempre tempo per letture interessanti e non collegate alla professione.

 

Quanti manager in Italia gestiscono le proprie informazioni professionali attraverso un social network?

Noi sappiamo che il 90% dei manager che rappresentiamo è oggi su Linkedin, più del 60% su Facebook, il 20% su Twitter, con una presenza molto disarticolata e senza cura della loro presenza, del loro personal branding e tanti sono silenti.

Questo dipende dall’errata convinzione che non essere presenti su queste piattaforme sia un minus. I numeri citati sono importanti per non banalizzare il fenomeno, tuttavia la spiego come una brutta abitudine. Non ci sono altre considerazioni. Stiamo parlando di manager se non sbaglio!

 

Secondo voi i social network sono candidati a sostituire i giornali e i libri come mezzi di informazione professionale ed economica? Se sì/no perché?

Stanno aumentando ed è ormai necessario. Io non credo che sia il futuro ma solo una espressione del modello odierno di comunicazione e partecipare ha l’obiettivo di imparare un linguaggio diverso.

Credo che i giornali e i libri siano portatori di contenuti e di stimoli irrinunciabili e impossibili da sostituire. Certamente questo deve portare a mantenere un forte focus sull’incentivare la professione di giornalisti e scrittori che credono in questo ruolo. Forse c’è la necessità, il bisogno di una maggiore esposizione e visibilità di qualificati comunicatori capaci di coinvolgere per i contenuti, forma e capacità critica.

 

I contenuti che produce e distribuisce l’azienda (articoli, ricerche e analisi, eventi) vengono considerati informazione oppure materiale promozionale e di marketing e quindi hanno meno dignità dei contenuti prodotti da professionisti dell’informazione?

Dipende dal contesto. In ogni caso, nel momento in cui ci si rivolge all’esterno, è d’obbligo per l’azienda essere autorevoli, credibili per promuovere il proprio marchio. Non credo si possa fare un confronto oggettivo con i professionisti dell’informazione.

Se condividiamo il fatto che la dignità dei contenuti sia originata da un comportamento responsabile, misurato, equilibrato, etico, non ci sono dubbi che questa sia la condizione sine qua non” per la comunicazione di entrambi, al di là dell’occasione e la ragione per cui viene fatta.

Verso l’interno le aziende possono fare molto. Ci sono molti casi di pubblicazioni costruite internamente alle aziende che trasferiscono non solo messaggi tecnici ma valorizzano la partecipazione e la condivisione a favore di un risultato finale positivo.

 

Ci sono categorie professionali che leggono più di altre (facendo la tara di chi è obbligato a farlo per avere aggiornamenti tecnici)?

Più che categorie professionali, parlerei di ruoli aziendali. Chi si occupa di Marketing e di General Management, dovrebbe essere più coinvolto nelle letture. In ogni caso è una forma mentis che si sta sviluppando trasversalmente nelle aziende. Senza costante informazione si potrebbe fare ben poco. Oggi si parla sempre più di soft skills.

 

Le nuove generazioni di manager leggono di più o di meno di quelli precedenti? Perché?

Anche qui non possiamo dire che sia per tutti lo stesso. Tuttavia , direi che leggono in modo diverso e con strumenti diversi, forse abusando eccessivamente della rete per informarsi e formarsi. La colpa la si dà sempre alla carenza di tempo ma un manager, se vuole, sa ben pianificare il proprio tempo dedicandolo alle aree più importanti.

 

Il management delle start up e delle nuove aziende è più portato ad informarsi?

Certamente in fase di sviluppo del progetto e del business plan i livelli di analisi e approfondimento sono maggiori, anche sulla spinta di un momento di euforia creativa e implementativa che li stimola a prevedere gli impatti dei deversi contesti nei quali si sviluppa la nuova attività.

Per il resto sono manager come tutti gli altri, persone preposte ai vertici organizzativi che sono consapevoli che menti aperte aiutano le imprese e le organizzazioni a raggiungere i loro obiettivi.


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Centri commerciali: modelli che sopravvivono

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Quali modelli di centri commerciali sopravvivono? Quali sono i fattori che determinano la morte di alcuni e l’evoluzione di altri? 

A gennaio, nel report privato di Company | Note, avevamo messo  la “crisi dei centri commerciali” nella lista delle DIECI COSE DA ANALIZZARE nel 2018.

E dopo le nostre pillole di aggiornamento di questi mesi, ecco l’analisi di Romano Cappellari, che insegna all’Università di Padova e al Master in Retail Management e Marketing di CUOA Business School.

 


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I trend che riguardano le aperture e le chiusure di centri commerciali ci sembrano molto differenziati, se prendiamo in esame Paesi come l’Italia, gli Usa, la Polonia, il Vietnam, i Paesi del Golfo. Come si spiegano performance così diverse?

Ci sono almeno tre macro fattori che spiegano le differenze nei trend delle aperture e chiusure:

  1. l’andamento dell’economia in generale e il tasso di crescita dei consumi in particolare,
  2. la superficie di centri commerciali pro capite già esistente sul mercato,
  3. il tasso di penetrazione dell’ecommerce.

 

Come si valuta l’andamento economico di un centro commerciale? 

L’indicatore principe è rappresentato dal numero di accessi complessivi in un anno (il cosiddetto footfall), che poi trascina tutti gli altri: le vendite al metro quadro e naturalmente anche gli affitti che i punti vendita devono pagare per restare all’interno del centro.

Si parla qui degli affitti al metro quadro dei negozi di dimensione media e piccola perché i negozi più grandi, le “ancore” dei centri, negoziano delle tariffe a parte che riflettono la capacità di un’ancora di attrarre nuovi consumatori nel centro.

Un altro importante indicatore di salute del centro è rappresentato dalla superficie affittata sul totale disponibile: i centri più performanti si avvicinano al 100%.

 

Ci sembra che in Italia se ne aprano – e alcuni di grandi dimensioni sono anche il programmazione – e in Usa se ne chiudano molti. L’Italia ha ancora spazio o il mercato è saturo?

Va detto innanzitutto che l’Italia ha una superficie di centri commerciali in rapporto alla popolazione che è molto più bassa di quella americana.

In ogni caso penso sia semplicistica la chiave di lettura della “crisi del mall”: quel che stiamo vedendo in America e, in misura minore, anche in Italia, è una crisi del centro commerciale del ‘900 incentrato sul grande ipermercato nel quale fare la “spesa grossa”.

Il centro commerciale oggi sopravvive solo se diventa una destinazione interessante nella quale si passa il tempo volentieri e si viene stimolati. Non è un problema di saturazione del mercato ma di concorrenza allargata anche ad altri canali.

 

Gli Usa possono essere un mercato segnaletico per l’Italia oppure l’Europa, in grado di anticipare una tendenza?

Pur con le dovute differenze culturali, demografiche e geografiche, gli Stati Uniti sono sempre un mercato interessante per capire dove sta andando il commercio perché molte tendenze si manifestano in quel mercato con qualche mese o anno di anticipo rispetto all’Italia.

Così è stato per esempio in questi anni relativamente alla penetrazione dell’ecommerce e alle conseguenze per i negozi brick & mortar.

 

Come si spiega l’arrivo di Aldi market, mentre altre insegne (es. francesi) sono in crisi? Coprono fasce di mercato diverse, non sono gestite al meglio…?

Aldi è l’inventore del discount e si è dimostrato vincente in molti mercati grazie alla capacità di soddisfare il consumatore pur offrendo un assortimento molto focalizzato. Questo consente di attaccare la concorrenza basandosi su prezzi bassi e tassi di rotazione dello stock molto elevati.

Non è che i tedeschi siano più bravi dei francesi, ma i grandi gruppi francesi erano cresciuti in Italia con il modello dell’Ipermercato che ora è in difficoltà. Vedo che Carrefour sta facendo comunque ora cose molto interessanti sul nostro mercato con i supermercati.

 

Quale ruolo hanno la ristorazione e il food nell’evoluzione dei centri commerciali? Si può considerare un ingrediente speciale con cui stimolarne la frequentazione?

Sì, nella sfida per diventare una destinazione interessante la varietà e l’attrattività dell’offerta food sono fondamentali. I centri commerciali di nuova generazione hanno visto un superamento del modello con la food court incentrata sui “soliti” fast food.

 

Quali sono le cause reali per cui in alcuni Paesi i centri commerciali sono in crisi? Quante colpe ha – se ne ha – l’eCommerce?

L’ecommerce ha certamente una buona fetta di responsabilità perché ha tolto di mezzo la necessità di dover uscire per acquistare un prodotto visto che posso farmi consegnare tutto a casa in modo rapido ed efficiente.

A questo si somma anche un cambiamento culturale che ha interessato molti consumatori che trovano alienante (e noioso) mettersi in auto per andare in scatoloni di cemento tutti uguali a riempire carrelli enormi.

Non è un caso che alla crisi di molti centri commerciali abbia corrisposto un rilancio del negozio di vicinato.

 

Quale spazio avrà l’eCommerce nei grandi spazi retail? Ci sarà davvero l’integrazione augurata tra negozio fisico e virtuale?

Questa integrazione è già in corso e tutte le aziende stanno ragionando in una prospettiva omnichannel. Le ultime sono state quelle del food, ma gli ultimi mesi ci mostrano che ora si stanno tutti muovendo velocemente.

 

Quanto è reale la divaricazione tra spazi con discount e catene di alto livello? Ci sarà ancora un centro commerciale “per tutti” o si andrà verso una divisione per classi di reddito?

Per classi di reddito non credo, dal momento che il reddito è sempre meno un predittore efficace dei comportamenti di consumo, penso invece si asisterà piuttosto a dei tentativi di adottare una differenziazione per lifestyle.

 

La logistica come influenzerà l’evoluzione dei centri commerciali? C’è ancora spazio per migliorare l’efficienza nelle catene italiane o sono già tutte evolute?

La logistica delle aziende italiane della grande distribuzione è molto evoluta. Assisteremo a dei cambiamenti legati alla gestione del cosiddetto ultimo miglio, cioè la consegna al singolo consumatore finale, per le aziende che stanno puntando sulla crescita dell’ecommerce.

Amazon e Walmart stanno sperimentando tante soluzioni interessanti, compresa la consegna direttamente nel frigorifero del cliente quando questi non è a casa a poter ricevere il pacco da parte di addetti in grado di accedere in fasce orarie prestabilite alle abitazioni dei singoli clienti.


 

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Glass to Power: dove si coltivano le nanoparticelle energetiche

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Un abbonato che fa spesso investimenti interessanti e fuori dall’ordinario ci ha segnalato Glass to Power, una società nata da uno spinoff dell’Università Bicocca di Milano.

Come mai è una iniziativa da conoscere? Perché sta portando sul mercato una nuova tecnologia: nanoparticelle  che inserite nel plexiglass di un pannello fotovoltaico sono in grado di trasformare la luce incidente, da visibile a infrarossa.

Una tecnologia che verrà impiegata nel fotovoltaico, ma promette applicazioni nella cosmesi, nella medicina e nell’elettronica. E verrà prodotta nella NanoFarm di Trento, come ci ha raccontato il Ceo e fondatore Emilio Sassone Corsi.

 


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Da dove nasce l’idea di Glass to Power?

Nasce dalla convergenza delle attività di due ricercatori dell’Università di Milano Bicocca, un fisico, Franco Meinardi, e uno scienziato dei materiali, Sergio Brovelli, che hanno connesso le proprie esperienze e hanno inventato una nuova tecnologia.

Da questa singolare esperienza è nata un anno e mezzo fa Glass to Power, spinoff dell’Università Bicocca e nel giro di così poco tempo abbiamo sviluppato industrialmente questa tecnologia fino a portarla alla certificazione e tra qualche mese al mercato.

C’è una tecnologia particolare dietro al vostro modello di business?

Certo! Si tratta di tecnologie brevettate dai due ricercatori e professori di Bicocca.  Il tutto si basa su delle particolarissime nanoparticelle, basate su Indio, Rame o Silicio, che riescono a trasformare la luce incidente da luce visibile in luce infrarossa.

Queste nanoparticelle vengono mescolate all’interno del plexiglass che compone il pannello fotovoltaico. Ai bordi del pannello fotovoltaico vengono fissate delle piccole celle fotovoltaiche che trasformano la luce così concentrata in energia elettrica, con una buona efficienza.

Come mai vi siete inseriti in un mercato apparentemente saturo e per questo molto sfidante?

Il fotovoltaico tradizionale è ormai completamente dominato da prodotti cinesi che hanno raggiunto prezzi bassissimi.  Ma i pannelli fotovoltaici tradizionali sono completamente opachi e possono essere installati sui tetti degli edifici ma certamente non sulle facciate, a meno di non perdere le finestre.

Le superfici dei tetti degli edifici, soprattutto quelli molto elevati, sono troppo piccoli per poter ospitare pannelli sufficienti per dare energia a tutto l’edificio. I vetri fotovoltaici trasparenti hanno il vantaggio di non aver alcun impatto visivo e poter utilizzare una gran quantità di superficie vetrata.

In generale queste metodologie vanno sotto il nome di Building Integrated Photovoltaic (BIPV).  La nostra tecnologia è in grado di produrre energia nella quantità sufficiente a rendere un edificio completamente autonomo da un punto di vista energetico, edifici che vengono chiamati ZEB (Zero Energy Buildings).

Che prospettive ha questa tecnologia e come pensate voi di svilupparla?

Considerando che ci sono direttive europee molto chiare che entreranno in funzione a partire dal gennaio 2020, e che sono già state recepite dal governo italiano e da molti altri governi europei, il mercato è enorme, valutato solo in Europa in 1Mld € con un incremento del 35% anno su anno.

Abbiamo una filiera produttiva già completamente pronta in grado di soddisfare un mercato di queste dimensioni fatta da un network di partner che consentono di realizzare le varie fasi del processo produttivo in maniera già piuttosto ottimizzata.

Perché a Trento?

Il nostro core business sarà la produzione di nanoparticelle.  In provincia di Trento, in particolare a Rovereto, abbiamo trovato le condizioni migliori per poter sviluppare il progetto NanoFarm, che consentirà di fare uno scale up della produzione delle nanoparticelle, in stretta collaborazione con l’Università di Trento, Dipartimento di Fisica.

Che applicazioni industriali potrebbe avere oltre al fotovoltaico?

Le nanoparticelle hanno applicazioni in molti settori e, attraverso il progetto NanoFarm, potremo affrontare nuove opportunità nel settore della medicina, della cosmesi, dell’elettronica.  Ma nel frattempo dobbiamo conquistare  il mercato così ampio nel settore fotovoltaico che queste ulteriori opportunità le dobbiamo affrontare successivamente.

Si consideri non solo il settore degli edifici con ampie superfici vetrate ma anche gli ospedali, i centri commerciali, e, in agricoltura, le serre.

Il mondo delle rinnovabili che trend sta vivendo? L’idea che ogni cosa debba produrre l’energia con cui alimentarsi è un’illusione?

Le energie rinnovabili sono l’unico futuro possibile. Non possiamo continuare a sfruttare le risorse fossili della Terra, i danni che in pochi decenni l’Uomo ha provocato sono enormi.  Fotovoltaico, eolico, biomasse, geotermia, onde marine, sono fonti rinnovabili, infinite, disponibili dappertutto nel mondo e sono in grado di sostenere tutte le attività umane.  C’è un grosso problema di accumulo dell’energia prodotta ma anche su questo si sta lavorando molto, sia in termini di ricerca che di possibili applicazioni.

Che ruolo ha avuto l’Università nella nascita di G2P? Avete conosciuto altri spin off nati “vicini” al vostro?

L’Università ha aderito subito al progetto di G2P che abbiamo presentato e ha assecondato e facilitato il progetto in tutti i modi.  Oggi siamo considerati in Bicocca il più importante progetto di spin off e quello che ha avuto il più alto tasso di crescita.

Stiamo acquisendo la proprietà dei brevetti da Bicocca e ciò ci renderà autonomi da un punto di vista industriale e consentirà di valorizzare ancor di più la società.  Abbiamo molti contatti con altri spin off di Bicocca e siamo inseriti all’interno di progetti comuni che aumentano il networking e le opportunità di business.