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MARCO GUALTIERI (SEEDS&CHIPS): L’ITALIA MERITA UNA UNICORN NEL FOOD

Abbiamo conosciuto Marco Gualtieri qualche anno fa, giusto in tempo per vederlo lanciare uno degli eventi internazionali sul food più importanti. Per intenderci, quello che ha ospitato a Milano l’ex Presidente Usa Barak Obama. Ecco cosa racconta a Company | Note.

Intervista estratta dal business report privato 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.

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Marco, perché hai creato Seeds&Chips?

Nel 2006 ero stato chiamato a dare un contributo alla candidatura di Milano per l’Expo. Quando la città si è aggiudicata l’Esposizione Universale ho incominciato a pensare cosa si potesse fare per valorizzarne l’opportunità. Ad un certo punto, intorno al 2012, sono arrivato ad una sintesi: “Expo sarà un successo, ma per essere tale dovremo portare avanti negli anni i temi e tenerne qui a Milano, in Italia, il baricentro”.  Abbiamo iniziato a progettare come si potesse fare, realizzando così che il tema di Expo “Feeding the planet, energy for life” era di una portata enorme, perché metteva il cibo al centro delle più grandi ed importanti sfide dell’umanità e che l’innovazione apriva scenari straordinari sia in termini di soluzioni che di sviluppo economico. Seeds&Chips, quindi, prende la parte dominante di quel progetto e diventa il cardine di un piano più ampio e articolato, con il Summit come centralità.

Sistema food – Prima il food era considerato un mercato. Oggi possiamo definirlo un sistema? Come mai?

Perché si è affermata la consapevolezza dell’importanza del food oltre alla sua stessa funzione primaria; della sua fondamentale relazione (di cui sappiamo ancora poco o nulla) con la salute; delle sue correlazioni con l’ambiente e con i cambiamenti climatici in un circolo causa-effetto che vede l’attuale produzione alimentare come uno dei principali responsabili dei cambiamenti in atto e la prima vittima degli stessi. Solo vedendo tutte le fasi del processo e considerando gli attori come parte di un sistema è possibile migliorare ed innovare. Questo è quello che oggi e sempre di più vogliono i consumatori; la loro fiducia nel grande brand è strettamente legata alla sua capacità di raccontare l’origine di quel prodotto, valorizzandone gli attori coinvolti e quindi, in primis,  gli agricoltori ed i loro processi produttivi.

Global food – Con il tuo progetto, sei partito subito con un approccio internazionale. Purtroppo moltissime delle nostre imprese del settore hanno ancora una traiettoria nazionale, per oggettivi limiti finanziari, e per dimensioni. Cosa si può prendere in prestito dal modello Seeds&Chips?

Oggi è sempre più limitativo guardare solo in un’ottica locale. Questo vale ancora di più per il food. Noi, appunto, siamo nati con una logica ed una impostazione internazionale, sia come scelta naturale che per gli argomenti trattati. Ma anche perché nella nostra missione aziendale ci siamo dati fin dall’inizio anche un obiettivo per il Sistema Italia. Se da una parte, infatti, l’innovazione nel food apre opportunità di sviluppo economico enormi potendo creare un vero e proprio nuovo settore, è anche vero che da qui passa necessariamente la competitività del sistema agroalimentare italiano, sia in un’ottica di mantenimento delle posizioni acquisite, che soprattutto di potenziale crescita. Pochi purtroppo si sono veramente resi conto che negli ultimi anni sono cambiate moltissime cose e che nei prossimi cambieranno ancora e sempre più velocemente. Le soluzioni tecnologiche quindi possono consentire, se sfruttate, di aumentare significativamente quella richiesta di Made in Italy che sappiamo esistere ma che rimane inevasa. Bisogna però cambiare completamente e velocemente mentalità. La metafora che spesso utilizzo: “E’ come se avessimo la più bella compilation musicale al mondo, ma non fossimo presenti su iTunes, Spotify, Shazam.“. E non lo siamo.  Alla prima edizione di Seeds&Chips, ad esempio, è nata una straordinaria startup italiana, Emerge, che ha sviluppato una piattaforma per portare anche i piccoli produttori a vendere ai grandi retailer mondiali, efficientando, per entrambi gli attori, tutto il processo. È un esempio nel quale non si tratta di limiti finanziari o dimensionali.  Emerge dovrebbe avere la fila davanti agli uffici ed i telefoni roventi. Invece il loro più grande sforzo non è aver convinto i più grandi player al mondo, ma convincere i manager o gli imprenditori dell’agroalimentare.

Start upSecondo noi c’è tanto fumo, ed è difficile trovare chi davvero fa fatturato ed ha idee concrete oltre la patina molto glamour. Ci dici dieci start up food che secondo te sfonderanno?

Non sono d’accordo. Innanzitutto occorre distinguere tra internazionale ed italiano. Perché le startup italiane del food pagano lo stesso scotto di quelle attive negli altri settori: mancanza di cultura. Che significa, mancanza di investimenti, poca apertura all’open innovation, etc. etc. L’Italia, ahimè, è ancora all’età della pietra in questo. E certamente non si tratta di mancanza di idee, progetti e talenti, ma dell’assenza al tavolo degli altri interlocutori che sono gli investitori e le aziende. Si preferisce ancora tenere i soldi, come si dice, sotto al materasso, innovare con tempi ormai non più praticabili o farlo esclusivamente con metodologie oramai non più sufficienti: internamente. Tutto questo è un problema enorme per la competitività del Sistema Italia. Non solo le startup sono e saranno sempre di più uno dei principali strumenti di sviluppo economico e crescita occupazionale, ma sono necessarie, appunto, per la competitività del sistema attuale. Non esistono solo le startup che arrivano a valere miliardi (ci sono anche quelle ed anche in questo l’Italia è il grande assente), ma ci sono anche quelle che creano decine di posti di lavoro e quelle che comunque aiutano le aziende già consolidate ad innovare. Questa arretratezza culturale, nell’interesse di tutti, va cambiata urgentemente. È una priorità. Sappiamo tutti che nel food il nostro paese ha credibilità. Il risultato dell’equazione è presto fatto: anche nel food tech possiamo avere credibilità e poter vedere quindi affermarsi startup che se solo fossero in un altro paese, non avrebbero magari chiuso i battenti o sarebbero affermate con decine, se non centinaia di dipendenti. In Italia ce ne possono essere molto più di dieci e quindi è difficile fare un elenco; ma questo succederà solo se riusciremo tutti assieme a sradicare velocemente questa arretratezza culturale. Non dipende solo dalla politica (e comunque negli ultimi anni cose sono state fatte), ma da diversi soggetti: investitori, imprenditori, manager.

Investimenti – Oltre al progetto Seeds&Chips, fai anche investimenti nel settore? Come ti orienti? Quali caratteristiche andrebbero cercate in un’azienda food in cui investire?

Proprio per i motivi di cui sopra (creare qui il baricentro dell’ecosistema della Food Innovation e sradicare l’arretratezza culturale del ruolo delle startup), noi ci siamo presi l’onere e crediamo anche l’onore, di supportare startup italiane nel food. Altrimenti saremmo stati come i tanti che predicano bene e razzolano male. Molte le abbiamo supportate e le supportiamo in maniera indiretta (consigli, contatti, sinergie), altre investendoci. Una di queste è appunto Robonica. Sono convinto che l’idroponica (così come  aeroponica, acquaponica e il più generico vertical farming) rappresenterà un settore da diversi miliardi di giro d’affari nei prossimi anni.  Ho capito fin dall’inizio che Robonica aveva una visione ed una soluzione fortemente innovativa e che il suo fondatore, Harald (ventiduenne al tempo del nostro primo incontro), una grande passione, conoscenza e tenacia. Oltre ad un team embrionale di esperti. Ingredienti tutti necessari per avere successo. Credo e spero che siano sufficienti perché confrontando Robonica con altre startup simili all’estero, che hanno ottenuto centinaia di milioni di euro di investimenti e molte delle quali stanno già fatturando decine di milioni, mi chiedo perché Robonica non possa fare lo stesso. Perché non possa diventare la prima startup unicorn italiana (perché ahimè l’Italia è forse l’unico Paese tra i primi 20 grandi del mondo a non avere avuto ancora una unicorn) generando così un effetto virtuoso a catena sull’intero ecosistema. Certo dipenderà in primis da Harald Cosenza e dalla sua capacità di trasportare la sua piccola azienda dal “garage” al mercato globale, ma oltre a questo sarà necessario il ruolo di molti altri attori che possono contribuire e vedere in quel successo un valore più grande che solo quello  proprio dei fondatori e degli investitori.  E lo stesso vale per Giorgio Bertolini di Emerge e per decine di altri. Noi speriamo solo di essere stati degli apripista e di riuscire a coinvolgere molti più soggetti ed investimenti in questo settore.

Consumatori – Leggiamo ovunque che i consumatori che per primi accettano e diffondono metodi innovativi di consumo sono i Millennials. I “senior” però oggi hanno una maggior capacità di spesa e spesso poi sono quelli che cristallizzano i cambiamenti. Nell’innovazione del food come si comportano?

La generazione dei Millennials sta stravolgendo interi settori. Lo fa in due modi: uno per così dire “passivo” modificando una fetta crescente delle abitudini di acquisto. L’altro in maniera attiva: creando quei prodotti e quei servizi più consoni alle loro esigenze, ai loro valori o  alle loro visioni. Questo vale più che mai nel mondo del food e i dati ovunque lo confermano anche se, come pensiamo in molti, la grande onda non è ancora arrivata. Ma sta arrivando. Il perché i Millennials abbiano un atteggiamento particolare per il food risiede in molti elementi. La sintesi  può essere nella maggiore consapevolezza del legame del food con la propria salute e con l’ambiente:  “una scelta più attenta di cosa mangio mi aiuta a stare meglio e a fare stare meglio il pianeta; voglio sapere cosa mangio e so che ho gli strumenti per farlo”.  Chi non rispetta quel racconto, quei valori sarà fatto fuori. Perché questa è la generazione che grazie ad un più agevole accesso alle informazioni, influenza i consumi più degli altri, ma è anche la generazione che “se non c’è quello che voglio, lo faccio” (Giorgio e Harald sono un esempio).  Poi non dimentichiamo che numericamente questa è la generazione più numerosa della storia, che nel giro di 3-4 anni avrà il più grande potere di spesa (anche grazie al trasferimento della generazione precedente)  e che fra 5-6 anni incomincerà ad occupare i posti di potere sia nel pubblico che nel privato. Facile rendersi conto che siamo in un enorme ritardo.

Retail – Nel retail abbiamo visto innovazioni avveniristiche: insetti che sostituiscono le proteine della carne animale, acquisti a distanza e consegne con i droni. Però i fatturati si fanno ancora con promozioni e carte fedeltà. Come la mettiamo? Quali sono i punti concreti con cui il retail farà progressi?

Quello che abbiamo descritto sopra (la rivoluzione in corso nel food system) vale per l’intera filiera e quindi anche per il retail. Il consolidamento dei giganti dell’e-commerce (senza dimenticare il posizionamento  di alcuni come ci raccontano le recenti acquisizioni di supermercati da parte di Amazon e Alibaba), impone immediati ed importanti interventi da parte della grande distribuzione. Personalmente credo sia finita l’epoca delle promozioni e carte fedeltà nel senso che questi strumenti siano sufficienti per mantenere il business. Credo, invece, che sarà necessario competere sulla qualità dell’offerta dei prodotti, in particolare sul fresco, sui servizi e sull’esperienza; quell’esperienza di acquisto che l’e-commerce difficilmente potrà offrire. Paradossalmente la GDO deve guardare molto, come modello al mercato rionale, alla bottega di quartiere. Sembra un paradosso, ma invece credo stia proprio qui la ricetta del food anche nel retail: moving forward by going back. Valorizzando l’offerta nel suo complesso però  con gli strumenti tecnologici a disposizione ed in particolare, ovviamente, il digitale.