(foto: financecommunity.it)
L’Industria 4.0 è di conio tedesco, come è tedesco il modello di impresa competitiva che innova processi e prodotti, non fermandosi al digitale.
Per questo, per avere un confronto tra Italia e Germania su modelli innovativi, tecnologie e digitale, ci siamo rivolti a Andrea Marinoni, Senior Partner di Roland Berger, azienda di consulenza Made in Germany, che da anni stringe i bulloni delle imprese italiane, dall’automotive al food.
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Intervista estratta dal business report privato 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.
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Mega Trend – Quali sono i mega trend che influenzeranno la “prossima economia” secondo Roland Berger?
Il Roland Berger Institute (RBI), nostro think tank in Germania, sviluppa il trend compendium 2030, uno studio sui mega trend alla base dello sviluppo del pianeta da qui al 2030, facendone una manutenzione annuale. E il nostro osservatorio ne approfondisce sette, tutti tra loro naturalmente interconnessi: 1) Dinamiche demografiche 2) Globalizzazione 3) Scarsità delle risorse 4) Cambiamenti climatici 5) Tecnologia e innovazione 6) Società della conoscenza 7) Responsabilità condivisa globale.
Ciascun mega trend ricomprende i principali sub trend. A titolo esemplificativo, le dinamiche demografiche abbracciano crescita della popolazione, invecchiamento, migrazioni e urbanizzazione. Per ciascuno, forniamo evidenze statistiche ed elementi quantitativi per derivare le principali implicazioni. Guardiamo da vicino l’impatto delle tecnologie esponenziali e la disruption che ne deriva, anche sulle imprese. Forse un esempio aiuta meglio a capire: immaginate di prendere la vostra auto e di iniziare a guidare a 5km/h, ma la vostra velocità raddoppia ogni minuto. Sapete a che velocità state viaggiando dopo 28min? 671 milioni di Km/h. In quell’ultimo minuto (il 28esimo) avrete percorso 11 milioni di Km. Cinque minuti a questa velocità vi basterebbero per arrivare su Marte. Realtà virtuale/aumentata, genetica, blockchain, intelligenza artificiale sono alcuni esempi di ambiti nei quali le tecnologie esponenziali sconvolgeranno letteralmente gli assetti che conosciamo oggi.
In Italia, la practice di Roland Berger Restructuring & Corporate Finance guarda da vicino l’impatto dei mega trend sulle grandi imprese e sul cosiddetto mid-market (che noi posizioniamo nella fascia dimensionale da 200 milioni a 1 miliardo di euro di fatturato) reale asset del Paese perché raccoglie ben identificati presenti e futuri campioni nazionali che, insieme ad una selezione di imprese con fatturato ancora inferiore riconducibili al Quarto Capitalismo nella definizione del centro studi Mediobanca, hanno dimostrato come l’adattamento continuo costituisca la componente strategica essenziale per le aziende di maggior successo. Guardando al 2030, ci dobbiamo chiedere se basti saper adattarsi dimostrando eccezionali capacità di resilienza o se piuttosto sia necessario fare altro. La sfida della futura competitività si vincerà realizzando non tanto trasformazioni incrementali ma veri e propri cambi radicali nell’innovazione di prodotto, processo e organizzativa.
Impatto sull’Italia – Che conseguenze generali potranno avere sul nostro Paese? Ad oggi l’Italia è pronta ad abbracciarle o è chiusa verso questi cambiamenti?
Le imprese basate in Italia sono ancora poco propense a traguardare un orizzonte di medio/lungo termine ed hanno inoltre imparato che le attuali condizioni di vulnerabilità, incertezza, complessità, ambiguità riducono la capacità di reale manovra. Tuttavia guardandoci intorno, i concorrenti diretti in Europa e Stati Uniti (per non parlare della Cina) continuano ad investire; inoltre, a livello globale, si è ulteriormente accentuato il consolidamento tra grandi aziende confermando che la Marcia dei Mammut, così definita dall’Economist nel 2014, costituisce una reale minaccia per le nostre aziende, tipicamente non alla testa delle filiere, perché crescono le pressioni sui margini o peggio il rischio di estromissione per effetto della razionalizzazione delle catene di fornitura.
Una statistica con la classifica delle principali aree industriali in Europa per “valore aggiunto” mette Brescia e Bergamo rispettivamente al primo e al secondo posto, Wolsfburg (Germania; sede di Volkswagen) al terzo, Treviso al settimo e Ingolstadt (Germania; sede del marchio Audi di Volkswagen) al nono. Rapportando il valore aggiunto alla popolazione, questa classifica si inverte con le aree industriali in Germania largamente in testa. L’intrinseco contenuto d’innovazione di prodotto e processo (investimenti alla base della produttività) è vero termometro della competitività, evidentemente ancora il punto debole delle nostre imprese.
Negli ultimi anni le poche aziende nella manifattura in Italia di taglia medio/grande (sono meno di 400 con fatturato superiore a 200 Eur mln) hanno visto crescere i propri ricavi, prevalentemente grazie alla trazione dei mercati internazionali, ma non hanno utilizzato la cassa prodotta per innovare prodotti e processi produttivi. Il segnale è ancora più marcato per le aziende un po’ più piccole nel settore manifatturiero (meno di 2.000 tra 50 e 200 Eur mln di fatturato): si investe ancora troppo poco sul futuro. Solo nell’ultimo anno, grazie alle misure fiscali varate nel nostro Paese per incoraggiare gli investimenti riconducibili ad iniziative Industria 4.0, si è registrata una promettente inversione di tendenza confermata dalle previsioni 2018 sulle vendite di beni strumentali.
Noi pensiamo che esista una vera e propria responsabilità sociale per alcune aziende pivot (sono meno di 80 all’interno di un insieme di 220 aziende medio grandi, con parametri di eccellenza) di incoraggiare, attraverso un effetto contagio, la trasformazione completa della value chain, del modello di business e del modo di rapportarsi tra aziende collegate (filiera, territorio) all’interno del manifatturiero a sua volta collegato con altri settori, quali ad esempio i servizi.
L’unico sistema per affrontare la sfida del salto tecnologico di prodotto e di processo, in un Paese in cui mancano reali aziende di grandi dimensioni nel confronto internazionale, è incoraggiare i campioni a cambiare sé stessi, guidando e contagiando il resto del sistema. Una possibile ulteriore via per affrontare la sfida tecnologica è consentire l’interazione simbiotica tra bit (tecnologia digitale) e atomo (produzione fisica, aziende, persone): quindi, ad esempio, una generica soluzione per la manutenzione predittiva funziona davvero se viene presa in carico dall’uomo delle operation, con 30 anni di vita aziendale, senso pratico e capacità provata di trovare soluzioni. Una nuova formula chimica, in cui il vero protagonista è l’atomo prima ancora del bit. Infatti, mai come oggi di fronte alle disruptive technologies, valgono le competenze e l’esperienza degli uomini nelle aziende per la messa a terra del potenziale dei robot che li affiancheranno (non sostituiranno).
L’incontro tra start-up (bit) all’interno di ecosistemi non necessariamente locali (penso a Silicon Valley, Tel Aviv, Singapore) e una selezione di nostre aziende (atomi) sarà lo snodo chiave per qualificare la nuova generazione di investimenti e in generale per favorire la modernizzazione delle nostre aziende. È quindi decisamente preoccupante che il valore del venture capital riferibile all’Italia sia stato intorno a 100 Eur mln nel 2017, peraltro in riduzione rispetto all’anno prima, quando in Europa il VC vale quasi 20 Eur mld (Germania quasi 3 Eur mld, Francia 2,5 Eur mld). L’innovazione e la modernizzazione del paese passano anche dal mondo delle start-up. Guardando gli investimenti VC nel mondo, oggi una parte rilevante è rivolta all’intelligenza artificiale (AI) nell’ambito mega trend Tecnologia e innovazione. AI è considerata una delle più importanti opportunità e vede la chiara leadership di Stati Uniti e della Cina a seguire. L’Italia non solo non esprime una posizione di rilievo nelle tecnologie AI ma risulta anche particolarmente arretrata nella sua applicazione, quando si tratta di realizzare una trasformazione digitale all’interno delle aziende. Oltre all’avvicinamento tra atomi e bit, riteniamo che l’apertura del capitale delle nostre imprese (IPO, SPAC, fondi PE) possa concorrere ad abilitare il cambiamento, a fronte dei mega trend e della sfida per la futura competitività. Alcuni segnali su questo fronte si vedono.
Aziende pivot – Secondo voi l’Italia ha 40-80 aziende “pivot” e ve ne sono altre 220 medio-grandi manifatturiere che possono fare da guida per le altre. A quali settori vi riferite?
L’Italia, seconda manifattura in Europa, esprime vere eccellenze. Abbiamo contato meno di 80 aziende pivot a partire da 200 milioni di euro di fatturato in crescita, profittevoli, patrimonialmente solide e footprint industriale/commerciale in linea con i requisiti dei mercati di riferimento. Prese nel loro insieme, queste aziende possono esprimere una massa critica sufficiente per favorire la realizzazione di una trasformazione digitale, ispirando e contagiando tutte le altre. Il 20% circa è concentrato nella meccanica e nell’automazione, un altro 20% è concentrato nella mobilità (incluso il settore Automotive). Anche le scienze della vita rappresentano circa il 20%. Altri settori che contribuiscono ad affermare il valore del brand Paese nel mondo – in particolare Food e Fashion – hanno un peso minore, data la carenza di aziende grandi.
Confronti/1 – In Germania c’è uno scenario simile? Quali sono i settori/le aziende che guideranno l’economia per i prossimi quindici anni? Che differenze/similitudini troviamo?
Come l’Italia, la Germania sta invecchiando rapidamente e l’arrivo di migranti non potrà controbilanciare completamente la richiesta di competenze richieste, soprattutto quando gli ingressi sono poco qualificati. La Germania ha in programma di lanciare nuove iniziative e leggi a favore del controllo dei flussi migratori, favorendo l’ingresso di persone altamente qualificate. Soprattutto nelle grandi aziende, la lingua inglese diventa la norma almeno tra white collar e ingegneri, favorendo quindi la capacità di attrarre talenti.
Confronti/2 – Si può dire che Industria 4.0 sia stata un’idea tedesca. Il nostro Paese come la sta coniugando? A modo suo, in modo personalizzato, come al solito, oppure segue il tracciato della Germania? Soprattutto con quali tempi arriveranno i risultati, e per quante aziende?
Sebbene due o tre anni fa si registrasse un diffuso timore che le aziende tedesche nell’Automotive o nella meccanica fossero la prossima vittima del processo di digitalizzazione in corso, molti oggi sono convinti che sarà comunque mantenuto un vantaggio rispetto alla competizione. Industrie 4.0, dopo un avvio lento (molti slogan senza sostanza) sta entrando nel vivo e il noto Mittelstand sta progressivamente facendo i passi necessari. Le piattaforme IoT di matrice tedesca (Siemens, Bosch, Trumpf) stanno avendo successo aumentando visibilmente competitività, anche rispetto a qualche concorrente americano. Tuttavia, complessivamente, la Germania si vede ancora debole per quanto riguarda il digitale.
In Italia, i settori tradizionali non stanno affrontando con la necessaria forza la trasformazione del modello di business, rischiando di non trovarsi pronti all’appuntamento (es. catena di trazione elettrica nell’Automotive). Bisogna essere disposti a bilanciare la certezza del ritorno economico dei business tradizionali con l’assorbimento finanziario di business emergenti ancora con volumi non soddisfacenti.
Per quanto riguarda Industria 4.0 (termine che molti limitano alla fabbrica digitale, mentre dovrebbe riguardare tutti i processi che attraversano la value chain aziendale, dall’innovazione di prodotto all’aftermarket, ricomprendendo il rapporto con fornitori e clienti), alcuni segnali incoraggianti in Italia circa l’inversione di tendenza nella vetustà dell’impiantistica non sono purtroppo sufficienti. Anche qui si deve puntare a trasformare il modello di business e realizzare un cambiamento di mentalità e un’innovazione organizzativa, non una semplice formazione tecnica; invece ci troviamo molte (troppe) iniziative locali, con missioni poco chiare e a bassa forza d’urto che di certo non consentono di patrimonializzare la massa critica e il conseguente impatto che potrebbe derivare unendo le aziende pivot nella manifattura nell’accompagnare la trasformazione digitale del Paese.
La Germania ha disponibilità finanziarie da impiegare. E sia lo Stato sia le imprese stanno investendo, senza aumentare il debito pubblico. Gli investimenti in proprietà intellettuale/R&S sono a livelli molto alti. La Germania si può permettere di spendere di più di altri Paesi – almeno in Europa (lasciando stare USA e Cina straordinariamente capaci di investire risorse finanziarie). Il motto è che gli investimenti in R&S oggi sono il fondamento della futura competitività. Specialmente nell’Istruzione, lo Stato spende miliardi di risorse finanziarie aggiuntive (i.e. trasferendo risorse ai Länder, gli stati federali che hanno in carico l’Istruzione), così come definito nell’accordo della nuova coalizione di Governo appena varata.
Confronti/3 – Il rapporto tra Italia e Germania, in termini di diffusione delle competenze tecniche come materia di studio, è 1 a 100. Quanto tempo ci vorrà per ridurlo, e cosa possono fare le imprese per accorciarlo? Comunicare direttamente agli studenti, come successo in questi giorni (vd.Confindustria Cuneo)?
In Germania esiste la lunga tradizione del sistema duale, un tipo di alternanza scuola lavoro (Berufsschule) che punta alla formazione professionale per acquisire competenze tecniche qualificate, in aggiunta alle scuole professionali a tempo pieno (Fachoberschule). Il sistema duale prevede di alternare la formazione sul posto di lavoro (3, 4 giorni alla settimana) con i corsi presso la Berufsschule. A proposito di potenziale d’incontro da domanda e offerta di lavoro, mi colpisce sempre il dato italiano sui NEET (Italian youth neither in employment nor in education or training; dai 15 ai 30 anni): dopo la Turchia siamo il paese in area OECD con il valore peggiore (intorno al 28%!); in Germania siamo intorno all’8%. Qui vale la pena evidenziare la forte eterogeneità in Italia tra aree geografiche.
Eppure le imprese, comprese le italiane, denunciano la carenza sul mercato di figure professionali da inserire. Oltre le statistiche, le medie imprese del manifatturiero necessitano di competenze tecniche, lungo la value chain: vendita nei mercati internazionali (che richiede sempre più conoscenza spinta del prodotto), progettazione tecnica, industrializzazione e operation, aftermarket.
Da noi scuole superiori e Università, oltre a programmare meglio le competenze da costruire per i lavori tradizionali, dovrebbero preparare gli studenti a svolgere i lavori che ancora devono nascere. Pochi in Italia hanno familiarità con figure professionali che sono già il presente altrove, come i data scientist utilizzati per interpretare grandi quantità di dati, ad esempio nell’ottimizzazione di una linea produttiva. La scuola dovrebbe fornire strumenti per acquisire consapevolezza sull’impatto delle tecnologie esponenziali, affiancando alle materie tradizionali una nuova materia, il futuro. Seguo con interesse una bellissima iniziativa, impactscool, di cui già si sente molto parlare.
La Germania sta vivendo tempi positivi che sono paradossalmente la ragione alla base di un certo freno al cambiamento, soprattutto guardando alla guida politica del Paese. Mancano, infatti, all’orizzonte vere grandi riforme a fronte di una conclamata debolezza nel settore IT, della scarsa presenza nei mercati del futuro (AI, batterie, fintech, ecc.) con un forte baricentro ancora sui settori tradizionali, con un mercato finanziario non sufficientemente sviluppato e l’assenza di vere grandi banche, poco venture capital, poche start-up, infrastrutture digitali inadeguate (fibra), uno stato sociale sorpassato e molto pessimismo invece di un sano approccio alla risoluzione dei problemi.
La Cina è considerata in Germania l’unico Paese in grado di diventare realmente un concorrente in futuro e, dopo gli Stati Uniti, il principale mercato di esportazione fuori dall’Europa. La Francia è vista come un partner affidabile nella leadership in Europa, in grado di spingere la Germania a realizzare le necessarie riforme.
Automotive trend – Avete recentemente fotografato i prossimi trend del settore automotive. Come si distribuirà la catena dell’automotive in Europa? Chi tra vent’anni disegnerà/produrrà/assemblerà? Che posto potrà avere l’Italia?
Il dibattito sul futuro dell’auto è molto acceso. Esiste una generale convergenza di opinione sullo scenario 2030, nel quale il settore dell’auto sarà radicalmente trasformato rispetto a come lo conosciamo oggi, con diffusione del veicolo elettrico, il robocab a guida autonoma, un ruolo determinante del cd. Mobility as a Service (MaaS) – che conquisterà una parte rilevante del profit pool della mobilità – un parco circolante ridotto.
Fenomeni in corso, utili per immaginarsi la catena del valore del futuro, sono combinazioni economiche tra costruttori tradizionali e il mondo di Silicon Valley (tecnologie AI), il rafforzamento di certe attività da parte degli OEM (es. ingegneria dedicata alla connettività, produzione motori elettrici, …) oltre a dinamiche molto differenziate nei sotto dominii che appartengono alle categorie Exteriors, Interiors, Chassis, Powertrain, Electronics.
L’Automotive è un business in salute da cent’anni (con la naturale dinamica dei cicli economici) nonostante evidenti inefficienze e contraddizioni (basti pensare all’impatto delle emissioni sulla salute, al tempo che passiamo inutilmente nel traffico, all’utilizzo antieconomico di auto con spazio non occupato) che si potrebbero superare con la rimozione di alcune resistenze al cambiamento. La disruption tecnologica consentirà di rimuovere queste friction, avvicinando un futuro che non sembra essere in discussione. Tutti i business tendono ad uno stato friction free nella misura in cui tecnologia, normativa e comportamenti dei consumatori lo consentono.
La traiettoria di avvicinamento allo scenario 2030 è il vero tema, perché una trasformazione di un’intera filiera deve essere praticabile e sostenibile, soprattutto in Europa che esprime la quota più rilevante del know-how nel settore. Il dibattito sui futuri limiti delle emissioni CO2 stabiliti dal regolatore (attualmente si sta negoziando in Europa il nuovo limite CO2, partendo dal target di 95 g/km al 2021) dovrebbe considerare la realistica capacità di tutta la filiera di governare in modo armonico la trasformazione, valutando gli impatti economici, sociali ed ambientali complessivi. Bisognerebbe spostare il dibattito su un piano meno superficiale e di propaganda.
Di certo, i principali costruttori e fornitori in Europa sono al lavoro per trasformare la propria offerta e il modello di business guardando all’auto che sarà, ben sapendo che per un certo periodo dovrà coesistere il business tradizionale che genera valore con quello ancora da costruire in preparazione dell’auto del futuro, ancora incerto. Con riferimento all’Italia, complici le dimensioni medie delle aziende, interventi incisivi per prepararsi al futuro compaiono ancora troppo poco nelle agende dei vertici aziendali e della proprietà.