L’onda degli investimenti nel food italiano è partita anni fa, ma è cresciuta con l’attenzione portata da Expo sul settore. Che in Italia dà agli investitori alcune buone ragioni: poche società quotate, stabilità, pochi rischi e consumi esteri che continuano a crescere.
Abbiamo chiesto a Stefano Malagoli, Amministratore Delegato di Glenalta S.p.A. e Managing Partner di Kaleidos Finance, di descriverci nel dettaglio molti di questi elementi.
E ci ha evidenziato alcune delle opportunità del comparto, che ha bisogno di capitali e competenze manageriali, aggregazioni e internazionalizzazione.
—
Intervista estratta dal business report privato 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.
Per riceverlo scrivere a info@companynote.it
—
Già prima di EXPO il food era un settore che destava moltissimo interesse da parte degli investitori. Ora ci sembra un’autostrada un po’ trafficata. Come spiega il mantenimento di un così alto interesse?
L’interesse degli investitori sul food italiano deriva da diversi fattori:
- ci sono relativamente poche società quotate in un settore in cui l’Italia esprime produzioni di eccellenza in differenti categorie;
- si tratta di un settore relativamente stabile e, generalmente, poco rischioso e non caratterizzato da ciclicità;
- i trend di consumo alimentari sono differenziati per categorie nei mercati più evoluti (alcune crescono perché percepite come salutari ed altre no). In generale comunque, i consumi mondiali tenderanno ad aumentare in dipendenza di alcuni macro-trend quali la crescita della popolazione e l’urbanizzazione. Se quindi gli investimenti nei mercati maturi avranno caratteristiche selettive, la “predisposizione” generale verso il settore dovrebbe mantenersi positiva in dipendenza dei macro-trend citati e della scarsità di asset quotati italiani in un settore in cui esprimiamo eccellenze;
- le imprese italiane in particolare esprimono eccellenze di prodotto ma dimensioni ridotte. Ciò, con l’adeguato supporto di capitali e competenze manageriali, rappresenta una grande opportunità (molte società hanno un notevole potenziale di crescita internazionale ancora inespresso).
Il settore è in una fase di consolidamento o di espansione? Quanto spazio c’è per qualche operazione di aggregazione in Italia?
A mio avviso c’è molto spazio per aggregazioni in Italia e all’estero. Le imprese italiane di piccola-media dimensione con scarso orientamento all’export (che sono la maggior parte) soffrono della staticità del mercato di riferimento nel quale le dinamiche di consumo, negli ulti anni, sono state deboli.
Vi sono peraltro opportunità di crescita anche sul mercato italiano in nicchie che accolgono produzioni “free-from”, biologiche ed in generale percepite come salutistiche (si tratta peraltro di nicchie ancora dimensionalmente ridotte in termini di volume d’affari).
L’opportunità di crescita dimensionale attraverso aggregazioni di produttori nazionali specializzati in produzioni complementari o adiacenti è elevata. Purtroppo sono ancora forti i vincoli derivanti da strutture proprietarie chiuse, poco inclini all’apertura del capitale (siamo peraltro il paese delle signorie e dei ducati …).
Quanti investimenti privati ha raccolto il food negli ultimi anni?
Non ho un riferimento dimensionale. Sarei portato a credere che esistono forti differenze a seconda delle situazioni. E’ certo che l’economia globale richiede livelli di investimento consistenti che le imprese di piccola/media dimensione non possono permettersi in via autonoma.
Tra produttori, trasformatori e distributori, chi è più interessante per investirci? E chi ha margini industriali più alti e maggiori possibilità di sviluppo?
La distribuzione è tendenzialmente molto più concentrata dei settori a monte nella catena del valore. Esprime marginalità più contenute dei produttori eccellenti pur avendo ottime caratteristiche in termini di stabilità e potere di mercato.
Si tratta peraltro di player che operano principalmente – se non in via esclusiva – su un mercato, quello italiano, che non credo possa offrire grandi prospettive in considerazione delle dinamiche demografiche, del calo del potere d’acquisto degli stipendi medi e dei noti problemi strutturali del nostro paese (elevata disoccupazione giovanile unitamente ad una gestione gerontocratica sia a livello privato che pubblico, elevato debito pubblico, preoccupante dinamica demografica). Vedo più difficile la possibilità per i leader della grande distribuzione italiana di crescere a livello internazionale.
Vi sono viceversa ottime opportunità per lo sviluppo di catene di distribuzione specializzate (fenomeno peraltro già diffuso).
Tra i produttori ed i trasformatori vi sono imprese eccellenti che, con gli adeguati supporti di capitali di rischio “pazienti” e di management con esperienze internazionali, possono candidarsi come aggregatori anche a livello internazionale, oltre che nazionale. A questo livello le strategie di investimento devono essere selettive.
Stanno nascendo molte start up legate al food, ma la maggior parte sono legate al delivery, e pochissime guardano all’innovazione di prodotto o di processo. Come giustifica questo trend?
Non mi occupo di start-up, credo comunque che ciò possa dipendere anche dalla scarsità di capitali dedicati al venture capital il cui mercato, in Italia, è molto debole. La dimensione di capitali necessaria per investire in business orientati al delivery su territori ristretti è mediamente inferiore a quella necessaria per sviluppare business che puntano sull’innovazione di prodotto e processo che si caratterizzano per maggiore intensità di capitale.
Grandi aziende del settore, italiane ed estere, hanno creato i propri Venture Capital per investire in start up innovative. Siete interessati anche voi alle start up o anche a condividere qualche investimento con soggetti simili?
Ci occupiamo di investimenti in business maturi con buone potenzialità di crescita a livello internazionale, non di start-up. Mi sembrano peraltro iniziative più che meritevoli ed opportune, soprattutto in Italia, considerata la citata debolezza del mercato del venture capital.
Diversi fondi stanno invece rivolgendo l’attenzione a catene retail del food e soprattutto della ristorazione. Come spiega questo trend? Ci state pensando anche voi?
Abbiamo lanciato due Spac:
- la prima, Glenalta Food, specialistica e dedicata ad investimenti nel food che si è chiusa con la combination con il gruppo Orsero (una special situation) che a nostro avviso ha ottime potenzialità di crescita nel medio termine.
- La seconda, Glenalta, generalista che stiamo chiudendo con CFT, un gruppo attivo nel food packaging (di fatto un’impresa meccanica il cui settore di sbocco è in prevalenza alimentare).
Nel futuro il nostro orientamento sarà generalista, pur con una particolare attenzione dedicata al food. Preciso che Gino Lugli ed io non credo promuoveremo a breve una nuova iniziativa di tipo Spac ma ci occuperemo con buona probabilità di costituire, con un terzo partner internazionale, una holding di investimento long-term che, solo in via eventuale, potrà anche promuovere Spac o pre-booking companies.
Crediamo infatti che in questa fase di mercato sia preferibile investire su target con potenzialità di crescita internazionale, senza necessariamente quotarli subito. Importante poi poterne concretamente facilitare lo sviluppo internazionale.
Per questo la nostra iniziativa avrà un’anima europea ed una americana in modo da poter facilitare lo sviluppo di imprese italiane negli USA e viceversa.
Si tratta per adesso di un progetto ancora in via di definizione, stiamo comunque valutando di strutturarlo come un club-deal dedicato ad un numero ristretto di investitori (vogliamo essere certi di avere una struttura di investimento coesa, pur garantendo flessibilità ai nostri investitori).
I business retail nel mondo del food rappresentano quindi una delle opportunità che valuteremo, non abbiamo interessi particolari in questo ambito che comunque consideriamo promettente, pur con un approccio molto selettivo. Si tratta infatti di un ambito di investimento in cui è necessario dotarsi di competenze specialistiche ed in cui è facile commettere errori.
Quali sono i Paesi con cui ci possiamo confrontare in termini di dimensioni e caratteristiche delle imprese agroalimentari? Chi si trova nelle condizioni simili all’Italia? Tra Francia, Germania e Gran Bretagna, chi è il miglior candidato a condividere qualche grande operazione di settore?
In primis la Francia ed a seguire la Germania. La Gran Bretagna è più interessante come benchmark e bacino di esperienze per lo sviluppo di retail nel mondo del food.
Secondo voi quali sono i comparti dell’agroalimentare che hanno maggior potenzialità di sviluppo e daranno magior soddisfazioni nei prossimi anni?
Dovendo citarne alcuni direi i componenti per gelato e per pasticceria (BTB), alcune nicchie del dolciario, la quarta gamma e lo sviluppo di marchi nella frutta secca ad esempio (Noberasco ne rappresenta un eccellente esempio). Grandi trader di frutta fresca come Orsero hanno inoltre ottime opportunità di sviluppo attraverso operazioni di consolidamento della distribuzione e diversificazione in comparti adiacenti nei mercati in cui operano.
Sappiamo che è autore di pubblicazioni sull’uso dell’intelligenza artificiale per la valutazione delle imprese. Le imprese del food hanno qualche tratto che ne rende il processo di valutazione differente da quelle di altri settori?
Non direi, si tratta di business maturi con potenzialità di sviluppo che si prestano ad essere valutati attraverso l’impiego di metodi classici di valutazione con modelli eventualmente a due stadi (se si prevedono discontinuità nel loro futuro percorso di crescita).
Dove si trova il maggior valore delle imprese agroalimentari italiane? Nel brand, nel prodotto, nell’innovazione di processo?
Dovendo semplificare e con le necessarie cautele quando si generalizza una valutazione, direi nel prodotto. Ci sono peraltro pochi grandi gruppi (Ferrero e Barilla per citarne due) che esprimono anche un forte valore di marca a livello internazionale.
Sarebbe bello se nei prossimi anni si sviluppassero altri player italiani in grado di esprimere, a livello internazionale, per presenza, qualità del prodotto e forza della marca, una leadership simile a quella dei due gruppi citati. Non credo si tratti di visioni eccessivamente ambiziose, le possibilità ci sono, basti pensare a ciò che sta facendo, in un altro settore, Fila (quotata tre anni fa dalla Spac Space). Il vincolo maggiore, a mio avviso, dipende dalla chiusura delle strutture proprietarie di molte imprese italiane di medie dimensioni.