Soldi, buon management e pazienza. Non sempre queste tre condizioni coesistono. Per questo il venture capital è un contesto complesso. Con problemi diffusi, come il gigantismo, ed anche connessi a specifici mercati, come quello italiano dove si vedono poche exit e anche pochi investimenti.
Ci ha dato molte informazioni sul tema Gabriele Grecchi, medtech entrepreneur, co-fondatore e amministratore delegato di Silk Biomaterials, e soprattutto autore di “Capitali di ventura. I segreti dell’industria dell’innovazione” (Egea 2018).
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Quanti sono i Venture Capital in Italia? Quanti capitali muovono? E quanti investimenti realizzano?
Nel 2017, secondo il Rapporto di ricerca Venture Capital Monitor, il venture capital italiano ha investito soltanto 208 milioni di euro in 78 operazioni (e queste includono sia primi round, che follow-on, ovvero investimenti successivi al primo per sostenere la crescita di una startup).
Di fondi di venture capital veri e propri ce ne sono pochi: tra questi, Innogest, P101, United Ventures, Principia, Atlante e TT Venture (ora insieme con Indaco Venture Partners), Panakes, Vertis, Primomiglio.
Esistono però anche alcune realtà attive come incubatori e/o acceleratori (da Digital Magics a LVenture, passando per H-Farm e Open Accelerator di Zambon) che alle volte investono in fase molto precoce, nonché club d’investimento strutturati in vario modo che coinvolgono business angels nell’investimento seed in startup promettenti di vari settori (Italian Angels for Growth, Italian Angels for Biotech, Club Italia Investimenti e altri).
Per dare un metro di paragone, secondo il data provider specializzato DealRoom, in Europa sono stati investiti nel 2017 oltre 19,2 miliardi di euro, con la Gran Bretagna a quota 7,1 miliardi di euro. Per numero di operazioni, però, la Francia è a quota 688 contro le 672 della Gran Bretagna. Rimaniamo quindi fanalino di coda, con la perenne domanda irrisolta: “non ci sono abbastanza opportunità d’investimento, oppure manca il capitale per investire?”
Chi sono e da dove vengono i venture capitalist italiani? E da dove vengono i soldi che gestiscono e investono?
In Europa, sempre nel 2017, sono stati raccolti 9,9 miliardi di euro, mentre nel triennio 2015-2017 in Italia sono stati raccolti complessivamente 500 milioni di euro (fonte DealRoom).
La massima da rispettare è che “i soldi seguono i rendimenti”, e in Italia i rendimenti (le exit) dal mondo del venture capital tardano ad arrivare. Quindi, gli investitori istituzionali (fondi pensione, casse previdenziali o assicurazioni) e i family office – che, tradizionalmente, sono i principali sostenitori di questo tipo di iniziative d’investimento – preferiscono partecipare direttamente a operazioni estere più allettanti come prospettive (e senza magari dover pagare le commissioni di gestione a un fondo di venture capital) o semplicemente abbandonano l’asset class e si spostano su private equity o real estate, dove il profilo di rischio/rendimento è sicuramente più intelligibile.
Nel sottobosco delle startup italiane non aiuta la reputazione di dealmaker aggressivi che alcuni dei nostri venture capitalist si sono costruiti nel tempo: la distanza negoziale tra le parti è spesso enorme (su termini fra l’altro opinabili), e non è raro che ciò dipenda anche dalla differente formazione professionale delle componenti coinvolte.
Molti dei nostri venture capitalist non hanno un passato da imprenditori, ma provengono dal mondo del private equity o della gestione d’impresa (seppur innovativa), portando quindi linguaggi alle volte molto diversi da quelli parlati dagli imprenditori dell’innovazione. Quando però l’intesa si crea, è molto facile poter assistere a investimenti importanti (si veda il caso di MoneyFarm, supportata da United Ventures, o Silk Biomaterials, di cui sono AD, supportata da Principia) e chiusi rapidamente.
Quali sono le operazioni più importanti degli ultimi anni dei VC italiani?
Quello che sta lentamente avvenendo in Italia è che gli investimenti maggiori si stanno concentrando in nicchie dove il nostro Paese può offrire realmente un vantaggio competitivo.
Ad esempio, quello delle scienze della vita: nel 2017, Greenbone ha raccolto 8.4 milioni di euro, BiovelocITA 7,2, Genenta Science 7, Wise 6,5, Pharma Integration 6, Empatica 5. Rispetto a queste, solo Satispay (fintech) ha fatto meglio, raccogliendo nello stesso anno 18,5 milioni di euro.
Questo è un segnale importante, poiché rafforza l’idea che il capitale per investire in Italia c’è, è pronto a seguire startup di successo con round di follow-on, ma deve poter trovare idee e progetti imprenditoriali all’altezza in termini di visione ed execution (fattori che accomunano le operazioni elencate).
Fanno anche investimenti all’estero? E ci sono VC stranieri che vengono ad investire in Italia? In quali settori?
Su questo aspetto, singoli rari casi di attività cross border non fanno testo rispetto al trend complessivo. Solo il life science è riuscito ad attrarre in qualche modo investitori stranieri: si pensi al caso di Sofinnova (fondo leader in Europa e negli Stati Uniti), che ha creato una joint-venture con Fondazione Telethon per investire nella traslazione clinica dei progetti sviluppati dalla onlus sulle malattie rare.
Ci sono però tentativi di company building nel nostro paese – come il caso di Casavo – dove investitori esteri sostengono un business case specifico che può avere nel nostro Paese un test importante prima di essere scalato in altre regioni. Ma rimane una chimera pensare che i fondi della Silicon Valley vengano in Italia come vanno in Israele. D’altro canto, i family office nostrani sono molto attivi su operazioni all’estero, grazie anche a club d’investimento molto ben connessi, come U-Start.
Quali sono i settori oggi preferiti dai VC italiani?
I venture capitalist italiani stanno cercando di seguire il trend complessivo europeo di investimento su:
- deep tech,
- fintech,
- soluzioni healthcare,
- biotech & medtech,
- artificial intelligence,
- analytics e SaaS.
Le difficoltà rimangono nel trovare opportunità d’investimento sufficientemente solide in queste aree. Spesso può capitare che la tecnologia sia molto forte – ad esempio, se proveniente dai molti centri di ricerca eccellenti presenti sul nostro territorio – ma venga totalmente a mancare il contributo manageriale per sviluppare ulteriormente il progetto e portare a mercato un prodotto o servizio.
Il problema di questo risiede nel fatto che non è stata creata una cultura imprenditoriale come invece è avvenuto negli anni ’50 intorno a Stanford, dove il rettore Terman spingeva i propri studenti a creare aziende per commercializzare i prototipi di tecnologie che avevano sviluppato per i contractor militari, obbligando al contempo i professori a partecipare come consiglieri di amministrazione in queste startup ante-litteram e offrendo spazi per uffici e capannoni nei dintorni del campus.
In quali settori pensi ci siano le migliori occasioni di investimento per i VC, in Italia?
La vera opportunità di arbitraggio finanziario per il mondo VC in Italia è nel settore delle scienze della vita. I nostri centri di ricerca competono in alcune aree a pari merito con gli omologhi californiani o del Massachusetts, ma hanno il vantaggio di “costare” meno in termini di risorse umane.
Inoltre, la domanda di innovazione in questo campo è pressoché infinita (i sistemi sanitari nazionali vogliono soluzioni tecnologiche che riducano i costi, le big pharma cercano novità per le proprie pipeline prodotti, e i pazienti vogliono stare meglio e guarire più in fretta), mentre l’offerta è ridotta alla fonte dalle difficoltà di “hackerare” la biologia.
Viceversa, nel mondo digitale la domanda d’innovazione è satura e non esistono in Italia grandi player attivi nell’M&A come negli Stati Uniti, e viceversa l’offerta d’innovazione è sovrabbondante, essendosi ridotte le barriere all’ingresso nel corso degli ultimi 10 anni.
Su quali elementi è basato finora il modello di VC. E come potrà cambiare?
Il problema del modello “venture capital” è che molto fondi si sono trasformati in asset manager: in termini di net present value, i VC guadagnano molto di più dalle commissioni di gestione che dall’improbabile premio di performance derivante dal cosiddetto carried interest (ovvero, il 20% a loro distribuito rispetto al totale di capital gain generato dal fondo per i propri investitori).
E questo disallinea tremendamente gli interessi tra limited partners (ovvero gli investitori nel fondo) e i general partners (i gestori del fondo). Si tratta inoltre di un’asset class dove si verifica una fortissima concentrazione dei risultati positivi: pochi player registrano i migliori rendimenti di tutto il settore, mentre la maggior parte dei fondi ottengono performance misere.
E infine c’è, nel mondo, un trend verso il gigantismo – in parte collegato anche al primo problema delle commissioni di gestione – con fondi multimiliardari che dovranno poi fare exit più che multimiliardarie per poter restituire il capitale con un ritorno apprezzabile per i propri investitori.
Quello che già sta cambiando è che alcuni fondi smart stanno applicando framework complessi di decision analysis per migliorare i propri processi d’investimento (si dice che occorrano 7 anni e 30 milioni di dollari per insegnare a un VC a fare il proprio lavoro…a spese dei suoi investitori), altri stanno sfruttando i big data per migliorare il loro accesso alle proposte d’investimento migliori (che rimane l’unico vero driver di sovraperformance: investire prima degli altri nei progetti più promettenti a valorizzazioni convenienti) e altri ancora stanno aumentando considerevolmente il numero di scommesse che fanno, proprio riflettendo sull’asimmetria della distribuzione dei rendimenti del settore (aumentando quindi la propria probabilità di incappare nelle startup vincenti).
Ci sono investitori italiani (istituzionali) che oggi non sono ancora entrati nell’industria del VC? Chi sono o potrebbero essere?
I fondi pensione italiani hanno 160 miliardi di euro di masse gestite, e con ragionevole certezza – guardando ai loro bilanci e ai dati ufficiali delle associazioni dei fondi – si può affermare che investano per oltre il 70% in Titoli di Stato o obbligazioni di altro genere. Hanno poi una quota parte in titoli azionari e, alcuni, sono attivi anche negli investimenti reali (come quelli immobiliari).
Se si ipotizzasse che anche solo un 1% delle loro masse fossero investite gradualmente in venture capital italiano, si potrebbe arrivare a una dimensione del settore in Italia molto più importante di quella attuale. Certo è che dovrebbero anche investire molto altro all’estero, proprio in ottica di miglioramento del proprio profilo d’investimento (l’endowment dell’Università di Yale – che si comporta in modo simile a un fondo pensione – investe il 18% in venture capital).
Quali sono le contraddizioni e i conflitti di interesse del settore?
Nel 2012 è uscito un interessante report della Kauffman Foundation, dove riportavano proprio contraddizioni e conflitti d’interesse del settore, partendo da un’analisi del loro grande portafoglio di venture. In estrema sintesi, solo 20 dei 100 fondi su cui hanno nel tempo investito sono riusciti a generare rendimenti superiori di almeno tre punti percentuali rispetto a quanto registrato dalla borsa nello stesso periodo, e la metà di questi erano fondi che avevano iniziato a investire prima del 1995.
La maggior parte di questi fondi, infatti, considerate le commissioni e il famigerato carried interest, non ha mai battuto i mercati azionari (possibile benchmark del settore).
Inoltre, parlando del gigantismo del settore, la Kauffman Foundation segnala che solo 4 dei 30 fondi più grandi di $400 milioni su cui aveva investito sono riusciti a battere i rendimenti del mercato. Uno dei problemi correlato a quest’ultimo tema, sul fronte degli investitori istituzionali, è che, di fatto questi spesso devono “riempire” delle caselle di asset allocation, ovvero scegliere dei fondi per gli investimenti in determinate categorie (ad esempio, il venture capital), ed essendo investitori molto capienti, si trovano in difficoltà a investire grandi somme di denaro in una miriade di fondi troppo piccoli, e quindi scelgono di investire in pochi fondi enormi risorse (fondi che poi non riescono a dare i risultati sperati, ma semplificano il lavoro degli allocatori di questi investitori istituzionali).
Un altro tema riguarda il fatto che spesso gli investitori istituzionali si affidano a narrative seduttive che, dietro a metriche di dubbia validità (come il vintage year, la performance di quartile o l’IRR), nascondono una mancanza di persistenza nella performance dei fondi di venture capital, i quali fra l’altro vedono i propri gestori impegnare solo l’1% del capitale investito, proteggendosi in questo modo dai possibili scarsi rendimenti del fondo che essi stessi gestiscono.
Anzi, il tema dell’IRR viene utilizzato proprio per mostrare un track-record positivo nel breve termine e aiutare quindi a fare fundraising multipli in pochi anni, mentre il test di lungo periodo (un ritorno cash-on-cash al netto delle commissioni di gestione superiore, dopo 10 anni, di almeno 2 volte il capitale investito) viene il più delle volte fallito.
Come potrebbe essere il settore tra 20 anni?
Credo si ritornerà a vedere, dopo questo periodo di euforia, fondi di investimento meno affetti da gigantismo (quindi, sotto i $400 milioni) e per i quali i gestori impegnano almeno il 5% del capitale del fondo.
E numerosi investitori istituzionali proseguiranno ad allocare sempre più risorse in investimenti diretti, risparmiando quindi in commissioni di gestione e carried interest.
Infine, dato che sarà sempre più chiaro che l’asset class può dare risultati positivi solo se si è in grado di partecipare ai fondi più di successo – che tuttavia non possono aprire la sottoscrizione a un numero infinito di investitori – molti istituzionali ridurranno la loro allocazione in venture capital a vantaggio dei mercati azionari tradizionali o al private equity.
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