Dal puro ambientalismo degli anni Settanta a un’idea alla base delle scelte di molti consumatori. E quindi delle aziende
Come può un concetto così vasto, che abbraccia economia, scienza, ambiente, esser diventato così di moda? L’idea di sostenibilità è nata intorno agli anni ’70, ed era puro ambientalismo. La immaginiamo teorizzata dai primi ecologisti, in un prato, tra una cover di Jimi Hendrix ed uno spinello, mentre nasceva Greenpeace e si odiavano gli esperimenti nucleari.
I motivi per cui è nata sono ancora buoni: lo spreco delle risorse, l’utilizzo di energie inquinanti, il consumo fine a se stesso; ma che giro ha fatto per diventare così ecobio-green e soprattutto cool da non esser più un’ideologia da alternativi, ma un’idea che sta alla base di tante scelte del consumatore moderno?
Dal consumo di energia al lavoro
ad quando è nata ha partorito diverse eredi. La prima è stata la sostenibilità energetica. Quella che voleva “solo” combattere l’inquinamento e l’esaurimento dell’energia ma si è evoluta; ha cavalcato alla grande la ricerca scientifica, influenzato la nascita di nuove risorse e creato un nuovo settore industriale, con celle solari prodotte in Asia, pale eoliche piantate in Svezia e batterie di ultima generazione progettate in Silicon Valley e posti di lavoro in tutto il mondo.
Proprio la sostenibilità del lavoro è poi la sua erede successiva. Portata a galla da una globalizzazione sempre più veloce, che consuma forza lavoro in tutto il mondo e sceglie di utilizzarla dove costa meno, ha avuto influenti estimatori come la Naomi Klein di No logo e il Toni Negri che ha scritto Impero. Ma anche qui, la teoria si è diluita nelle scelte pratiche del consumatore di oggi che, sempre più interessato alle impronte sociali del capo di abbigliamento che indossa, finisce per sostenere una moda “pulita” influenzando la nascita di nuovi cicli produttivi, nuovi materiali eco-friendly, e stimolando un’incalzante ricerca in campo scientifico.