Antonio Belloni

Bio

Sono nato a Milano nel 1979 e cresciuto a Clusone. Mi sono laureato in Scienze internazionali e istituzioni europee all’Università Statale. Dopo diverse esperienze in aziende pubbliche e private in cui mi sono occupato di internazionalizzazione e comunicazione,  oggi lavoro a Milano come consulente aziendale. Mi occupo anche di divulgazione di tematiche economiche e sociali che riguardano l’impresa, il management e l’informazione, e dal 2007 scrivo su diverse testate nazionali ed ho pubblicato alcuni libri con Marsilio, Guerini ed EGEA.

Ecco alcune delle aziende per cui ho lavorato o lavoro, continuativamente o realizzando singoli progetti:

AIRLIQUIDE (iLab, Parigi)

APA – (Confartigianato Milano, Monza e Brianza)

ARMANNI Carrelli Elevatori (Bergamo)

ASARVA (Confartigianato Imprese, Varese)

AYROS Editore Milano

BELLISSIMO (per MONEYFARM, Torino)

BELLISSIMO SRL (Torino)

HAVAS MEDIA (per MANPOWER GROUP, Milano)

HOUSE OF DATA IMPERIALI (Milano)

INVENSENSE INC. (TDK, quotata al NYSE, USA)

LINKIESTA (Milano)

METRIKA SGR (Milano)

PROMOS – Camera di Commercio (Milano)

RADICI PIETRO INDUSTRIES & BRANDS S.P.A (Bergamo)

SEI CONSULTING (EY Global Network, Brescia)

– Sit In France (Parigi)

 

DICONO DI ME (su LinkedIn…)

Pietro Boroli – PRESIDENTE DE AGOSTINI EDITORE SPA
“Ho conosciuto Antonio nell’ambito dell’organizzazione dei Tavoli Tematici dell’Expo 2015. Ne ho apprezzato le capacità organizzative e di relazione”.

Amrita Sarkar (Ph.D.) – Senior VC Business Development Manager, AMAZON WEB SERVICES
“Antonio is an extremely competent professional who delivers exactly what he promises. On a recent project in Italy, I contacted Antonio so that I could benefit from his perspective on the Italian food innovation ecosystem. Not only did he share his deep insights on the subject, but he also put me in contact with other relevant experts (such as entrepreneurs, academics, corporate players and investors) in this domain. Thanks to Antonio, I had a complete overview of the landscape. I look forward to collaborating with him in the future and would recommend his services highly.”

Mirko Nesurini – CEO ANTONY MORATO
“Antonio has a way in his profession, he has the ability to create and maintain relationships and connections with the SME and the business communication sectors”.

 

Libri

I nuovi foodmakers, di Pasquale Maria Cioffi, prefazione di Antonio Belloni (2020, Editoriale Delfino).

Per quale tic mentale, quando si pensa a un’evasione dai problemi quotidiani e una nuova avventura di vita, si fruga sempre nel grande cesto del food? E perché questo cestone è così grande da darci l’idea che contenga un’idea per tutti? Qual è l’ingrediente che poi trasforma questa pazza idea in un progetto ambizioso? E cosa può far crescere questo progetto, nato individuale, fino a renderlo un’impresa con un bel fatturato e alcuni dipendenti? E dopo qualche anno, come si guida questa impresa, consolidata e robusta, tra le onde alte e improvvise della globalizzazione, i cui ostacoli non sono più solo la logistica locale o la burocrazia nazionale? C’è un racconto asettico sull’evoluzione complessiva del mondo delle imprese che si muove freddo tra i numeri dei rapporti Istat, poi ci sono tanti piccoli racconti singoli, e ognuno lascia una sua traccia umana indelebile: c’è il groppo in gola di quando si registra finalmente il proprio marchio, la gioia sudata della prima consegna, la preoccupazione del primo accredito del mutuo, la responsabilità infinita dei primi stipendi pagati, la soddisfazione del primo prodotto sul bancone della grande distribuzione, e la foto sui social con il primo cliente estero…mentre si pensa “mi pagherà?”. Il piccolo-grande gioco dell’impresa è questo. Comincia con tanto coraggio e molta irresponsabilità, e finisce con un pensiero quotidiano che la notte, su quel maledetto cuscino, non va mai a riposare. È un processo naturale comune a tutti quelli che ci provano: il miraggio esce dal cassetto, finalmente; prende la forma di un progetto, più spesso di un legno storto, con un budget, non sempre di un business plan, che si traduce in un investimento, quello sì, sempre rischioso; poi si inizia a navigare, altrettanto spesso perdendo la rotta, smettendo gradualmente di segnarsi i punti cardinali e di osservare i venti, abbandonando la promessa di quella precisione dell’inizio, che a un certo punto va a farsi benedire. Infine, ci si guarda in faccia e si scopre che da quella passionaccia è saltato fuori un lavoro.

Uberization, il potere globale della disintermediazione (2017, Egea)

A un secolo di distanza da quando Henry Ford diede vita a quel sistema organizzativo e di produzione che dalla sua fabbrica prese nome e che, involontariamente, impose i propri principi ispirativi a mercati e contesti diversi, la storia sembra oggi ripetersi con Uber e il suo modello, applicato a settori sempre più distanti dall’«originale». L’uberization, tuttavia, è solo uno degli ingredienti di una nuova ricetta tecnologica in cui algoritmi, applicazioni, piattaforme software, click e dati dettano le regole dell’innovazione all’insegna del fenomeno più ampio e inclusivo della disintermediazione. Nata con il web, la disintermediazione predica la ricerca continua dell’efficienza attraverso l’eliminazione degli intermediari all’interno di un processo. Prende per mano la distruzione creatrice di Schumpeter promettendo velocità, risparmi e profitto, mediante la costruzione di una via più breve, di una relazione diretta con il cliente/utente. Influenza ogni organizzazione, diffondendo l’idea che si possa accedere al proprio mercato di riferimento anche da outsider, senza dipendere da alcuna struttura e senza l’esperienza del professionista. Lascia la propria impronta nel business dei grandi colossi del web così come delle piccole startup, nelle nuove forme dell’industria editoriale e della comunicazione così come nelle regole di una campagna elettorale. I seguaci la considerano una soluzione geniale, i nemici e i detrattori ne vedono pericoli e aspetti negativi. È forse uno dei processi recenti più innovativi perché meglio rappresenta il tentativo di redistribuire – grazie alla tecnologia – denaro, opportunità, potere e gerarchie. Ma quanto di realmente dirompente c’è in essa e quanto invece è frutto di un percorso ciclico e fisiologico?

Food Economy, l’Italia e le strade infinite del cibo tra società e consumi (2014, Marsilio)

Quali sono le ragioni per cui oggi il cibo è fotografato, idolatrato, esibito, narrato? E perché, se in Italia non ne aumenta il consumo, la sua presenza in tv, sui giornali, sul web è invece così ingombrante? Divenuto il messaggio di tante forme di comunicazione, il cibo è lo strumento con cui rivendicare la propria identità individuale, territoriale e religiosa. Dà sfogo alla creatività e risponde a criteri estetici. Allo stesso modo, il consumatore non è più solo una «macchina metabolica»: prima che il cibo giunga nel suo piatto pretende di conoscerne valori nutrizionali, origine e salubrità. Un pacchetto di dati che hanno un valore crescente e costituiscono una grande fetta di business per chi lo produce, trasforma e distribuisce, ma soprattutto per chi lo racconta e lo porta quotidianamente nelle nostre case. Accanto a questa evoluzione recente, si rafforzano successi economici e contaminazioni del cibo con altri settori, come la moda e il turismo. Un mix di elementi che, sotto la patina glamour della Food Society – dove il cibo è tendenza e linguaggio, e gli chef sono i nuovi guru di una religione alimentare -, muove un flusso globale di scambi che genera ricchezza. È la guerra della Food Economy, raccontata in questo libro, che si fa sempre più serrata, a colpi di brand, certificazioni e marchi d’origine. Tra consumatori di paesi evoluti ed emergenti, l’Italia è consapevole di trovarsi nel posto giusto al momento giusto?

Esportare l’Italia. Virtù o necessità? (2012, Guerini Editori)

Dalla prefazione di Marco Alfieri

Esportare in un mondo ormai piatto, non è più solo una virtù ma una consuetudine ed esportare da un Paese fermo, non è più solo un’opportunità, ma una concreta necessità. Esportare l’Italia per dare (ancora) un futuro di benessere al nostro paese e tenerlo agganciato alla serie A del mondo. Ma farlo meglio, in modo più sistemico e organizzato di come le imprese tricolore facciano oggi. É questo il senso e il valore del libro di Antonio Belloni, condensato in capitoli agili e puntuali che dipanano luci e ombre del nostro made in Italy.”

Il potere della disintermediazione

(in Comunicare meno, comunicare meglio, (2017, Guerini NEXT).

La dis-inter-mediazione è un fenomeno che ha più di trent’anni, ma solo da dieci, grazie allo sviluppo tecnologico, si fa largo nella comunicazione come strumento che permette velocità d’azione, garantisce un dialogo diretto con il pubblico e consente di gestire il proprio messaggio in modo autonomo e senza intermediari. Nella sua versione più basilare ha un significato funzionalista e molto pratico: l’eliminazione di un passaggio all’interno di un percorso fatto di più elementi; ma può anche coincidere con la sottrazione di un anello da una catena (anche fisica), o di una funzione all’interno di una serie di operazioni, e avere così infiniti campi di applicazione, anche distanti dai contesti tecnologici in cui oggi produce i suoi effetti più evidenti.

Effetti che la diffusione del web rende dirompenti proprio nel contesto che etimologicamente definisce la disintermediazione, ovvero i media; qui infatti si propone come strumento in grado di modificare ognuna della parti che compongono la filiera dei media informativi: la produzione, la distribuzione e l’analisi dei contenuti. Di queste parti la disintermediazione può eliminare o aggirare funzioni intere o parziali. Può stravolgere quelle fino ad oggi delegate a giornali e giornalisti, a editori e stampatori, a critici, analisti e comunicatori. I soggetti che rimescolano velocemente questi ruoli e che elidono qualche anello della catena del valore dei media, finiscono lentamente per proporre una nuova mediazione, la loro, e si propongono come re-intermediari.

Facebook rifiuta il ruolo di grande distributore di contenuti, ma inevitabilmente è divenuto il più diffuso oleodotto tramite cui fluiscono gigantesche quantità giornaliere di informazioni liquide, quindi inarrestabili anche quando non sono prodotte da media tradizionali. Twitter ancora cerca un business model efficace, ma intanto consente a chiunque di produrre informazioni mettendo in crisi la funzione di anticipo e selezione delle informazioni che è tipica delle agenzie stampa e quelle di comunicazione. Google – pur con criteri diversi e meno affidabili di quelli tradizionali di una biblioteca – è divenuto il contenitore più grande per archiviare, distribuire ed organizzare il sapere.

In questo contesto il web affida sempre più spesso l’ordine – un suo Nomos – di tutti i contenuti prodotti da ogni utente che si in grado di farlo, a qualche algoritmo. Così anche la mediazione professionale di giornalisti, critici, archivisti e la gerarchia del sapere e quella delle fonti sono rimescolate e stravolte dalla tecnologia perché grazie ad essa chiunque, persino il singolo, può produrre, distribuire ed analizzare informazioni. Com’è allora possibile difendere il valore della propria funzione o della propria professione, se di valore ne resta, all’interno della propria filiera dei contenuti? Com’è possibile conservare e generare ancora valore per i lettori e per il pubblico, in un momento di forte sfiducia nei confronti dei media, oggi saltati a piè pari? Com’è possibile che il contenuto abbia ancora un valore se un messaggio nella bottiglia, consegnato al web, diventa di dominio comune?

Gli elementi su cui tenere fisso lo sguardo, che segneranno e già ora segnano il percorso dei media scombussolati ma anche rinfrescati dalla disintermediazione, sono due: il pubblico ed il valore dell’informazione. La bella e sfrontata giornalista Zoe Barnes, nella serie House of Cards, dice a un suo interlocutore che “al giorno d’oggi, quando parli a una sola persona, è come se parlassi a mille” come ad indicare, oltre al tema della perdita della privacy, che di ogni messaggio si perde il controllo una volta che lo si consegna anche solo ad un membro della propria audience; e aggiungiamo che oltre al controllo se ne perde anche il valore, consegnandolo ad un pubblico infinito ed indistinto. È quindi sempre più chiaro che il valore di un’informazione è dato solo dal mercato che è interessato a riceverla. Allora, chi è il proprio mercato di riferimento, se il valore dell’informazione è inversamente proporzionale alla sua diffusione?

Perciò una nuova mediazione andrà costruita per un pubblico mirato, specifico e consapevole, e se oggi la disintermediazione, pur essendo una pratica consolidata, appare come una novità utile ma anche pericolosa, il nodo gordiano della comunicazione non è ancora sciolto: come è possibile farsi pagare per produrre, consegnare, scambiare o valutare contenuti ed informazioni in un mondo che cambia, sotto i colpi di tecnologie sempre più incalzanti? Il sentiero stretto, e forse unico, da cui cominciare è quello che porta un’informazione prima di tutto al proprio mercato di riferimento. Dove il suo valore sarà conservato solo se non avrà dispersioni e se non sarà cercato attraverso la pesca a strascico dei click; senza l’illusione di portare il messaggio al mondo interno, ma digitando con precisione il numero del destinatario.

 

Citazioni

Professionalità (2018) bimestrale di studi e orientamenti per l’integrazione tra scuola e lavoro;

Nuove tecnologie e regolazione: il «caso Uber», RIVISTA TRIMESTRALE DI DIRITTO PUBBLICO (2018);

MEDIALAWS (2019), Rivista del diritto dei media, La rivoluzione delle piattaforme digitali;

Comunicare meno, comunicare meglio (Serena Scarpello, Guerini Next editore, 2017);

Che cos’è la disintermediazione (Paola Stringa, Carocci editore, 2017);

Le conseguenze dell’innovazione tecnologica sul diritto del lavoro (Pietro Ichino, Associazione Giuslavoristi Italiani, 2017);

Come siamo cambiati (Roberta Carlini, Editori Laterza, 2015);

Strategie e performance dell’industria alimentare (Antoldi, Cerrato, Campati, McGraw-Hill Education, 2015);

Brain in Italy (Franco Barin, Guerini Next, 2015);

European Competitiveness Report (European Commission, 2014);

Rapporto Coesione e competizione (Symbola, Unioncamere 2015).

 

Articoli

Quanto vale la mia impresa, Imprese e Territorio, 13 maggio 2020.

Covid-19 il disordine perfetto. Informazione senza filtro, 14 maggio 2020.

Dopo il virus vorremo ancora comprare prodotti e servizi nel modo identico a prima?. Il Sole24Ore, 2020.

Il ritorno delle comunità. Changes, 2020.

La sostenibilità invisibile del cibo. Changes, 2020.

Il Natale della sostenibilità. Changes, 2020.

Da sub a super fornitori. Imprese e territorio. Gen. feb. 2020.

Quanto vale l’economia del riciclo. Changes, 2020.

Improvvisare fa male all’export. Imprese e territorio. Nov.dic. 2019.

Se l’università non va alla manifattura. La manifattura va all’università. Senza Filtro, 2019.

Connessioni e ossessioni tra Milano e provincia. Senza Filtro. 2019

Quando il pubblico abbraccia il privato. Changes. 2019

Come cambia il racconto dell’azienda. Changes. 2019

Vivere in comune. Changes. 2019

La nuova impresa italiana? E’ straniera. Changes. 2019

Il potere dell’acqua. Changes. 2019

Il clima cambia il business. Changes. 2019

Quanto vale l’economia del riciclo? Changes. 2019

La grande migrazione tecnologica. LINC magazine, 2018.

Perché Uber&c disorientano il legislatore. Milano Finanza, 2017.

L’esperto impara dall’inesperto. LINC magazine, 2017.

La sostenibilità va in fattura. LINC magazine, 2017.

Il prodotto c’è ed è richiesto, occorre solo più ordine. Milano Finanza, 2015. (food)

Il marketing dei sindacati. Il Foglio, 2014.

I manager, l’altro capitale estero che manca alle aziende italiane. Il Foglio, 2014.

Expo e made in Italy: l’importante era comunicare, non vendere. Linkiesta, 2015.

Più lavoro e meno spettacolo, ci salverà la moda slow. Linkiesta, 2014.

Durerà l’effetto viagra del lusso per borsa e industria? Il Foglio, 2014.

Verità e bugie sull’export italiano. Linkiesta, 2014.

Basta chiacchiere da bar sugli investitotri esteri. Linkiesta, 2013.

Quello che serve al made in Italy? Un export compact. Linkiesta, 2013.

Dieta informativa per manager e Ceo. Centodieci, 2018.

Il Ceo incontra i social. Centodieci, 2018.

La narrazione continua del cibo. Centodieci, 2017.

Rivoluzione delle competenze? Punta a una formazione che resista alla prova del tempo. Centodieci, 2017.

Soddisfazione del cliente e nuove tecnologie. Centodieci, 2017.

Le aziende non cercano più esperti, ma appassionati. Centodieci, 2017.

La tua attività è minacciata dalle tecnologie? Centodieci, 2017.

Innovare, una necessità. Centodieci, 2017.

La segretaria, una figura fondamentale in azienda. Centodieci, 2016.

Storytelling, Centodieci. 2016.

Quando il nome è tutto. Centodieci, 2016.

Smart city, smart company. Centodieci, 2016.

Delivery e velocità: quanto dipende da noi? Changes, 2018.

Silver economy/Lavorare sempre. Changes, 2018.

Silver economy/L’economia dell’età anagrafica. Changes, 2018.

La gerarchia serve ancora? Changes, 2018.

Amazonization – tutto è delivery. Changes, 2018.

La plastica cambia vita. Changes, 2018.

La condivisione cambia strategia. Changes, 2018.

La concorrenza dei non-competitor. Changes, 2017.

Il vintage è un business model. Changes, 2017.

La disintermediazione come economia. Changes, 2017.

Verso la smart land. Changes. 2019

Comunicare sanità e salute. Changes. 2018